La fiscalità comunitaria
L’articolo 2 del TCE enuncia la creazione di un mercato comune e un UEM. Il Trattato vieta dazi e sancisce la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi. Nei confronti dei Paesi terzi si applica una tariffa doganale comune. La comunità non ha un proprio sistema di imposte e non ha competenza generale in materia tributaria, ma vi è una “fiscalità armonizzata” derivante da regolamenti e direttive.
Le libertà fondamentali: divieto di restrizione e di discriminazione. Il Consiglio, all’unanimità, può emanare direttive per armonizzare le legislazioni fiscali degli Stati. Passi importanti sono stati fatti per l’armonizzazione delle imposte indirette; invece, le direttive in materie di imposte dirette sono poche e di ristretta portata (integrazione positiva). Di qui l’importanza della integrazione negativa, che è un effetto delle sentenze della Corte di Giustizia, che censurano le norme fiscali degli Stati non compatibili con il diritto comunitario. Il principio di non discriminazione è sancito nell’articolo 12 TCE: “è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”. Secondo la Corte, la normativa di uno Stato che discrimina gli operatori (persone fisiche o giuridiche) in base alla nazionalità, prevedendo per i non cittadini un trattamento fiscale peggiore rispetto a quello stabilito per i cittadini, è incompatibile con le libertà fondamentali sancite dal Trattato. La discriminazione può essere:
- palese (in base alla nazionalità),
- dissimulata (nata negli anni 90, ma già presente nella sentenza Satgiu del 1973 numero 152).
Quest’ultima porta allo stesso risultato della prima traducendosi in una discriminazione in base alla nazionalità. Per verificare se vi è discriminazione vengono analizzate 2 o più situazioni:
- sostanziale: situazioni simili hanno un trattamento diverso, in base al principio di coerenza dovrebbero ricevere il medesimo trattamento fiscale, o quando viene adottato il medesimo trattamento per situazioni diverse;
- formale: situazioni non simili e imparagonabili, la corte di volta in volta deve verificare la paragonabilità.
Sentenza “Avoir fiscal del 1986”. In Francia il credito d’imposta sui dividendi era riconosciuto solo ai residenti. Il socio non residente operante in Francia per mezzo di una stabile organizzazione aveva chiesto il rimborso, ma lo Stato non lo aveva riconosciuto in quanto soggetto non residente. Secondo l’articolo 52 “ai cittadini di uno Stato membro che si stabiliscono in un altro, devono essere riconosciute a quest’ultimo le medesime condizioni applicate per i propri cittadini”. L’articolo parla di cittadini non riferendosi a residenti o non. La Corte di Giustizia ammette che vi possano essere dei regimi fiscali diversi, ma in questo caso la posizione del socio residente, con il non residente, che opera nel territorio dello Stato per mezzo di una stabile è identica, ed è per questo che, al contribuente non residente spetta il credito d’imposta.
La libera circolazione dei lavoratori (articolo 39 TCE). Residenti e non sono assoggettati a regimi fiscali diversi, in quanto i residenti sono soggetti ad imposta in modo illimitato (per la totalità del reddito), i non residenti in modo non limitato, ossia per i soli redditi prodotti nello Stato. Questa diversità è giustificata dalla circostanza che il reddito percepito nel territorio di uno Stato da un non residente costituisce, nella maggior parte dei casi, solo una parte del suo reddito complessivo. In alcuni casi, può accadere anche il contrario. La Corte ha affermato che, quando un lavoratore produce la maggior parte del suo reddito in uno Stato in cui non è residente, gli deve essere concesso il “trattamento nazionale”, equiparando di fatto il non al residente.
Sentenza “Bikel del 1990”. Bikel è un cittadino tedesco che nel 1983 per una parte dell’anno aveva prestato lavoro in Lussemburgo. Successivamente si era nuovamente trasferito in Germania, al termine del rapporto di lavoro aveva richiesto al primo il rimborso delle trattenute subite in quanto eccedenti le imposte dovute. Il fisco Lussemburghese aveva vietato il rimborso con la motivazione che, le ritenute, erano rimborsabili solo per chi aveva prestato lavoro nello Stato tutto l’anno fiscale. Si solleva la questione dinanzi alla Corte di Giustizia, per verificare se vi è discriminazione in base all’articolo 39 (che vieta la discriminazione basate sulla: nazionalità, retribuzione e altre condizioni lavorative). La Corte rileva la discriminazione, in quanto, se si utilizzassero norme fiscali che operino sulla retribuzione, questo andrebbe ad influire sulla tutela del reddito, inoltre quest’ultima si è trovata davanti un caso palese di discriminazione basata sulla residenza fiscale ( tra chi ha lavorato tutto l’anno in un Paese e chi una parte). La Corte per risolvere questo caso ha utilizzato la sentenza Sotgiu ravvisando una discriminazione dissimulata, infatti il criterio che ricollega alla residenza il rimborso delle ritenute eccedenti rischia di danneggiare tutti i dipendenti cittadini di altri Stati membri.
“Schumacker 1995”. Schumacker vive in Belgio con la moglie disoccupata e un figlio lavorando come dipendente transfrontaliero in Germania. Oltre alla normativa interna viene applicato l’accordo bilaterale fra i due Stati. Viene trattato dalla Germania come un soggetto non residente e per questo non gli vengono riconosciute alcune detrazioni, anche se la quasi totalità del reddito familiare (per l’esattezza il 90%) è composto in Germania (è una situazione anomala infatti non capita spesso che la maggior parte del reddito venga prodotto nel Paese di non residenza). La Corte osserva che in linea di principio la situazione di un residente non può essere paragonabile a quella di un non residente e per questo alcune differenze posso essere ammesse, ma nel caso il non residente produca la maggior parte del proprio reddito nel Paese di non residenza gli deve essere concesso il “trattamento nazionale”. Quindi il signor Schumaker doveva essere trattato come un soggetto residente, in quanto produceva il 90% del reddito complessivo in Germania, le spese deducibili potevano essere perse, perché valide solo in base alla capienza reddituale.
La libertà di stabilimento (articoli 43 comma 2 e 48 TCE). Essa comporta il diritto di ogni imprenditore di trasferirsi da uno Stato membro all’altro, per esercitare un’attività economica in uno Stato membro diverso rispetto a quello di origine (“libertà di stabilimento primaria”). In secondo luogo, ogni imprenditore deve essere libero di aprire filiali (controllate), agenzie o succursali (stabili organizzazioni) in un altro Paese membro (“libertà di stabilimento secondaria”). La libertà di stabilimento deve essere tutelata sia nello Stato di origine sia in quello ospitante. La libertà di stabilimento incide sul trattamento fiscale (compensazione e riporto) dei costi e delle perdite transfrontaliere. Ciò vale sia per la legislazione fiscale dello Stato di origine sia per il Paese ospitante, in cui è insediata una branch o una subsidiary.
“Sentenza Futura”. La differenza di trattamento fra le imprese residenti e non, deve essere motivata da condizioni oggettive. Può risultare in contrasto con la libertà di stabilimento sancita nel Trattato, se si verificano situazioni identiche, con trattamento differenziato in base alla sola residenza.
“Sentenza Imperial chemical industries del 1998 ”. La norma britannica non permetteva di utilizzare il riparto fiscale delle perdite per le holding con partecipazioni in società non residenti (veniva concesso solo per le residenti). Questo viene ritenuto dalla Corte incompatibile con la libertà di stabilimento previsto nel Trattato.
“Sentenza Baars del 2000”. Prevedeva la tassazione patrimoniale per i contribuenti che detenevano una partecipazione in delle società non residenti. Infatti l’esenzione veniva riconosciuta solo per le partecipazioni in imprese residenti. La corte dichiara questa norma interna incompatibile con la libertà di stabilimento.
“Sentenza Amid del 2000”. Lo Stato belga non permetteva la compensazione delle perdite fiscali subite dalla casa madre, da parte di stabili organizzazioni. Questo caso rappresenta un’ipostesi di restrizione da parte dello Stato d’origine, dichiarato incompatibile dalla Corte in quanto lo Stato belga aveva ratificato dei Trattati bilaterali contro le doppie imposizioni.
“Sentenza lasteyrie du saillant del 2004”. La legislazione francese prevedeva l’imposizione delle plusvalenze mobiliari non ancora realizzate, in caso di trasferimento del domicilio fiscale fuori dalla Francia. La Corte ha ritenuto che la norma Francese producesse un effetto dissuasivo nei confronti dei soggetti che intendevano trasferirsi in un altro Stato, con conseguente violazione della libertà di stabilimento.
“Sentenza Commerzbank 1993”. Il Regno Unito non riconosceva alla Commerzbank il rimborso delle imposte pagate sugli interessi maturati grazie a dei prestiti concessi a diverse società americane. La Corte rileva la discriminazione in quanto la normativa inglese riconosceva il rimborso ad un soggetto residente, ma non altrettanto ad un soggetto non residente che opera per mezzo di una stabile organizzazione.
“Sentenza Saint-Gobain 1999”. La Corte considera discriminatorio il trattamento che impedisce ad una stabile organizzazione di una società comunitaria situata in Germania, di beneficiare, alle stesse condizioni delle società di capitali con sede in Germania, dell’esenzione d’imposta per i dividendi ricevuti da società stabilite in Paesi terzi prevista da una convenzione contro la doppia imposizione. Uno Stato membro deve necessariamente estendere i benefici derivanti da tali convenzioni anche alle stabili organizzazioni di società che hanno sede in Stati in cui la convenzione fiscale con lo stesso Paese terzo non prevede tale clausola di trattamento privilegiato.
“Sentenza Bosal del 2003”. La Corte ritiene incompatibile la norma che impedisce la deduzione da parte della holding residente degli interessi passivi derivanti da prestiti contratti per finanziare società figlie non residenti (se avesse finanziato società figlie residenti l’avrebbe ottenuta). La Corte rileva una restrizione della liberta di circolazione da parte dello Stato ospitante.
“Sentenza Marks Spencer”. La norma non consentiva la deducibilità delle perdite fiscali della società controllata non residente, neppure nel caso in cui tali perdite non possono essere compensate dalla controllata nello Stato di residenza. Si tratta di una sentenza simile a quella del caso “I.C.I.”. Bisogna considerare le perdite in quanto riducono la capacità contributiva in ambito internazionale. Potrebbe accadere che lo Stato della stabile ammetta in deduzione perdite e contemporaneamente vi sia la deduzione da parte della holding delle perdite subite dalle stabili; in questo caso si avrebbe una “double not taxation”.
La libera circolazione di servizi (articolo 49 TCE). Essa vieta restrizioni alla libera prestazione dei servizi nella Comunità nei confronti dei cittadini degli Stati membri. Questa libertà interessa gli operatori economici (persone fisiche o giuridiche) che prestano servizi in un Paese diverso da quello in cui sono stabiliti. Il principio in esame ha carattere residuale: esso opera quando non valgono le norme sulla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali. Esso riguarda i servizi transfrontalieri e deve essere assicurato sia nei riguardi di chi presta il servizio sia nei riguardi di chi ne fruisce. In applicazione del principio, sono state censurate dalla Corte le norme fiscali degli Stati che negavano o limitavano senza motivo la deducibilità dei costi sostenuti per prestazioni di servizi rese da imprese non residenti.
“Sentenza Svensson e Gustavsson”, del 1995. La norma Lussemburghese non prevedeva la deducibilità degli interessi sui mutui erogati da istituti stranieri, questa è stata ritenuta contraria alla libera circolazione dei servizi dalla Corte.
“Sentenza Safin, del 1998”. Il governo svedese non consentiva la deducibilità delle polizze vita stipulate con soggetti non residenti. La Corte riscontra una violazione della libera circolazione dei servizi da parte del governo disapplicando la normativa interna.
“Sentenza Eurowings, del 1999”. Il governo tedesco non permetteva la piena deducibilità dei canoni di locazione, per attività industriali e commerciali, ad un soggetto non residente. La Corte ha ritenuto che simili prelievi fiscali potrebbero rendere questa norma pericolosa per il mercato interno e per questo l’ha disapplicata.
La libera circolazione dei capitali (articolo 56 TCE). L’articolo vieta ogni restrizione: ai movimenti di capitali, ai pagamenti tra Stati membri, tra Stati membri e Paesi terzi. Il principio implica che i Paesi non debbano ostacolare gli investimenti con norme fiscali che possono avere effetti restrittivi della circolazione dei capitali o effetti discriminatori tra investitori residenti e non. La Corte di Giustizia ha stabilito che i dividendi azionari non possono essere trattati diversamente a seconda che provengano da società residenti o da società non residenti. I diritti derivati dalle libertà fondamentali sono riservati ai cittadini europei (persone fisiche e società che hanno la cittadinanza europea). La tutela della libera circolazione dei capitali è però di tipo oggettivo: è tutelata la circolazione dei capitali anche nei rapporti con i Paesi terzi.
“Sentenza Verkooijen, del 2000”. La normativa olandese prevedeva l’esenzione dei dividendi distribuiti da società residenti (per eliminare la doppia tassazione economica), ma non per quelli distribuiti da società non residenti. La Corte ritiene che la norma interna andasse in contrasto con la libera circolazione dei capitali ricordando la prevalenza del diritto comunitario sull’interno.
“Sentenza Mannien, del 2004”. Il governo finlandese non riconosceva il credito d’imposta sui dividendi esteri, riconoscendolo solo per quelli interni. Gli articoli 56 e 58 vanno in contrasto con una normativa nazionale che, non permetta di usufruire del credito d’imposta per i dividendi esteri, per questo la Corte ha ritenuto la normativa finlandese in contrasto con la libera circolazione dei capitali.
“Sentenza Barbier, del 2003”. La Corte ritiene incompatibile la norma che, con riguardo alle imposte sulla successione discrimina il de cuius residente al non residente.
Deroghe alle libertà fondamentali (articolo 58 TCE). L’articolo 30 vieta il movimento di merci che siano contrari alla moralità pubblica, ordine pubblico, pubblica sicurezza, tutela della vita e delle persone. Idem per la libera circolazione delle persone e la libertà di stabilimento. Derogando al principio della libera circolazione dei capitali, l’articolo 58 permette di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del capitale. In altri termini, è consentito agli Stati di diversificare il trattamento fiscale dei redditi di capitali dei non residenti rispetto a quello dei residenti, e di diversificare il trattamento fiscale dei redditi dei capitali investiti all’estero rispetto ai redditi domestici.
Rule of reason. Esse sono ammesse: “quando siano necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica e alla difesa dei consumatori”. La Corte ha riconosciuto che sono “rule of reason”: l’esigenza di contrastare le frodi e l’elusione fiscale, l’esigenza di preservare l’efficacia dei controlli fiscali e il principio di coerenza dell’ordinamento fiscale nazionale. Una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è giustificabile solo se concerne specificatamente le costruzioni di puro artificio (“controlled foreign companies”) finalizzate a eludere la normativa dello Stato membro interessato. Secondo la Corte, il regime fiscale delle “CFC” non è ammesso quando la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e vi esercita attività economiche effettive. Le norme anti-elusive sono ammesse solo quando ci troviamo in presenza di imprese fittizie destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta.
“Sentenza Lankborst, del 2002”. La Corte ritiene incompatibile la norma tedesca, che contrastava la “thin capitalization”. Quest’ultima riqualifica l’interesse come dividendo solo nei confronti del socio finanziatore non residente, ma non di quello residente (intento antielusivo).
“Sentenza Schweppes, del 2006”. Il gruppo Cadbury Schweppes aveva stabilito due filiali in Irlanda al solo fine che, i profitti legati alla attività di finanziamento interno del gruppo Cadbury Schweppes potevano beneficiare di un regime fiscale più favorevole. Secondo il parere del giudice, le società controllate sono stati incorporati in Irlanda per non rientrare nella applicazione di alcune disposizioni imposte britanniche su operazioni di cambio. La Corte ha ritenuto che la libertà di stabilimento richiede una base stabile e continuativa alla vita economica di uno Stato membro diverso dallo Stato di origine. Quindi una società non può invocare la libertà di stabilimento in un altro Stato membro per il solo scopo di beneficiare di una legislazione più vantaggiosa a meno che lo scopo sia quello di portare avanti una reale attività economica.
Il principio di coerenza. L’esigenza di preservare la coerenza del proprio sistema fiscale è una delle difese di cui più frequentemente si avvalgono gli Stati per giustificare le deroghe della legislazione nazionale rispetto alle regole comunitarie. A questo principio, la Corte attribuisce rilievo solo se sussiste un collegamento diretto fra la fattispecie discriminata (una deduzione) e quella tassata (pensione), cioè quando si ha l’applicazione di una stessa imposta allo stesso contribuente. Esso si traduce in un divieto di doppia imposizione.
“Sentenza Bachmann, del 1992”. La norma belga non consentiva alla persona fisica la deduzione dei premi di assicurazione corrisposti. È possibile dedurre dal reddito complessivo, sotto forma di oneri deducibili, i premi di assicurazione sui crediti o sugli infortuni. Se fossero stati pagati ad una persona non residente, da una compagnia non residente lo stato belga non avrebbe concesso la deduzione. Al contempo se il premio fosse stato pagato da una compagnia residente la norma interna avrebbe permesso la deduzione. Questa situazione era bilanciata da un’altra norma, la quale sosteneva che, in caso il contratto fosse stato stipulato, con una compagnia residente vi sarebbe stata tassazione della rendita corrisposta, con successiva deduzione dei premi per le società residenti (in sostanza tassazione e deduzione per i residenti, non imposizione e deduzione per i non).
“Sentenza Danner, del 2002”. La normativa finlandese escludeva la deducibilità dei premi assicurativi versati a società stabilite in altri Paesi (accordandoli a i residenti). La Corte ha ritenuto incompatibile tale norma se preclude la deducibilità ai fini dell’imposta sul reddito dei contributi versati per l’assicurazione volontaria contro la vecchiaia a soggetti erogatori di prestazioni pensionistiche stabiliti in altri Stati membri, pur concedendo la facoltà di dedurre tali contributi qualora siano versati a enti stabiliti nel primo Stato membro, se essa non esclude, nel contempo, l’imponibilità delle pensioni versate dai detti soggetti erogatori.
Il principio di proporzionalità. In base ad esso, le restrizioni che gli Stati possono introdurre non devono eccedere quanto strettamente necessario al perseguimento di un dato fine (esempio: contrastare l’elusione fiscale).
Libera concorrenza e aiuti di stato (articolo 87 TCE). L’articolo 87 dichiara incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. Sono aiuti di Stato sia le sovvenzioni fiscali (crediti d’imposta), sia le norme che escludono o riducono i normali oneri fiscali. Una misura si considera aiuto quando presenta 4 requisiti:
- vi è un vantaggio sotto forma di alleggerimento di costi;
- il vantaggio è concesso dallo Stato attraverso risorse statali;
- il vantaggio incide sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati membri;
- il vantaggio è concesso in maniera specifica e selettiva.
Il divieto non è assoluto. L’articolo 87 prevede 3 serie di deroghe:
- le discipline speciali previste dal Trattato in materia di agricoltura, pesca, trasporto, eccetera;
- il 2 comma dichiara compatibili con il mercato comune gli aiuti concessi ai singoli consumatori e gli aiuti concessi in caso di calamità naturali o altri eventi eccezionali;
- il terzo comma elenca una serie di aiuti che possono considerarsi compatibili con il mercato comune:
- se destinati a favorire lo sviluppo delle regioni a basso tenore di vita;
- se diretti a realizzare progetti di interesse comune;
- rivolti ad agevolare lo sviluppo di alcune attività o regioni, purché non alterino le condizioni degli scambi;
- se indirizzati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio;
- le altre categorie di aiuti che siano determinate con decisioni del Consiglio, che può stabilire, in presenza di circostanze eccezionali, che un aiuto si debba considerare compatibile con il mercato comune.
Gli Stati, prima di adottare un provvedimento a favore delle imprese, devono comunicare il progetto alla Commissione (obbligo di notifica), e non devono eseguirlo prima che la Commissione si sia pronunciata.
Concorrenza fiscale dannosa e codice di condotta. La concorrenza in ambito UE non deve essere falsata neanche dalla “concorrenza fiscale dannosa”, praticata dagli Stati mediante trattamenti fiscali che possono incidere sugli scambi stessi. Quest’ultima è contrastata anche dall’OCSE, che, dal 1998 ha fissato la definizione di “paradiso fiscale” basata sui seguenti criteri:
- un sistema fiscale basato sulla previsione della mancanza di imposte o della presenza solo nominale di esse, in combinazione con l’offerta ai non residenti di utilizzo del proprio territorio quale luogo ideale per evitare le imposte del Paese di residenza;
- la mancanza di normative che permettano uno scambio informativo fra Stati;
- mancanza di trasparenza e di sostanza nelle transazioni.
L’armonizzazione delle imposte indirette (articoli 93 TCE). L’articoli 93 ha lo scopo di eliminare le disparità dei regimi fiscali nazionali. La Comunità non ha il potere di creare un proprio sistema di imposte, infatti la nozione di “armonizzazione” presuppone la permanenza delle legislazioni nazionali. Essa riguarda solo le imposte sulla cifra d’affari, le imposte sui consumi ed altre imposte indirette.
L’armonizzazione dell’Iva. L’Iva è un’imposta che non ammette doppioni. L’articolo 33 vieta agli Stati l’istituzione di tributi che abbiano il carattere di un’imposta sul giro d’affari. Sono vietate le imposte che hanno la stessa base imponibile dell’Iva, perché ciò comprometterebbe il buon funzionamento del mercato comune. Il sistema tradizionale di tassazione degli scambi internazionali (tra Paese UE e extra UE) è quello del Paese di destinazione, che comporta l’applicazione di dazi sulle importazioni e la detassazione delle esportazioni. Per gli scambi interni alla Comunità è stato programmato il regime di tassazione del Paese d’origine. L’Iva sarà applicata sugli scambi intracomunitari come è applicata all’interno di ciascun Stato. Il venditore emetterà fattura nei confronti del compratore, applicando l’Iva. Il compratore potrà detrarre l’imposta pagata in via di rivalsa. L’imposta sarà dunque percepita nel Paese d’origine, ma si vuole che l’Iva sia alla fine percepita dallo Stato in cui avviene il consumo del bene. Perciò lo Stato di destinazione dovrà recuperare, nei confronti dello Stato d’origine, l’Iva concessa in detrazione.
Il ravvicinamento delle imposte dirette. Il Trattato non prevede l’armonizzazione delle imposte dirette. Tuttavia in base a:
- il principio generale enunciato nell’articolo 3 del Trattato, il quale prevede “il ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune”;
- gli articoli 93 e 94, che attribuiscono al Consiglio il potere di emanare direttive volte al “ravvicinamento” delle legislazioni aventi un’incidenza diretta sul mercato comune;
- l’articoli 293 esorta gli Stati ad avviare negoziati per garantire “l’eliminazione della doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità”.
Vicende del ravvicinamento delle imposte dirette. Nel 1990 la Commissione pubblica un documento, dove si prevedeva un intervento comunitario rivolto ai regimi fiscali nazionali che ostacolavano le operazioni straordinarie transfrontaliere e la doppia imposizione internazionale. Nello stesso anno, il Consiglio accoglie 3 proposte della Commissione ossia:
- la Direttiva sulle fusioni;
- la Direttiva sulla distribuzione di utili madri e figlie;
- la Convenzione arbitrale, diretta a porre rimedio alle doppie imposizioni.
La direttiva sulle fusioni. La Direttiva sulle fusioni è stata emanata allo scopo di eliminare le disparità fiscali tra i vari Stati, dando vita ad un regime fiscale comune. Prima della Direttiva, gli Stati tassavano le plusvalenze emergenti dalle operazioni di riorganizzazione societaria transfrontaliera. La soluzione adottata dalla Direttiva è questa: le operazioni straordinarie transfrontaliere non sono considerate presupposto impositivo delle plusvalenze; la relativa tassazione è differita alla data della effettiva realizzazione. Per fusioni, scissioni e scambi azionari, la Direttiva pone il principio di “neutralità fiscale”, in base alla quale non sono tassate le plusvalenze risultanti dalla differenza tra valori reali e valori fiscali dei beni coinvolti nell’operazione.
Le riorganizzazioni “in uscita”. Le riorganizzazioni in uscita sono quelle in cui l’organizzazione originaria (conferente) è una società residente in uno Stato membro e quella derivata è invece residente in altro Stato (esempio: una fusione con la quale una società italiana viene incorporata da una francese). L’articoli 4 dispone che: “la fusione o la scissione non comportano alcuna imposizione delle plusvalenze risultanti dalla differenza tra il valore reale degli elementi dell’attivo e di passivo conferiti ed il loro valore fiscale” (si applicano le stesse norme delle fusioni o scissioni domestiche). I soci delle società fuse non sono soggetti a tassazione per le plusvalenze delle azioni scambiate. Lo stesso art. viene applicato anche ai conferimenti d’azienda (plusvalenze non imponibili e minusvalenze non deducibili se si rimane nell’orbita fiscale italiana).
Avanzi e disavanzi di fusione. Per gli avanzi, la Direttiva si limita a stabilire che la società beneficiaria (es.: la società incorporante), quando annulla la partecipazione e realizza una plusvalenza (avendo ricevuto beni di valore superiore alla partecipazione) non è tassata (quindi l’avanzo di fusione non è tassato). Passiamo al disavanzo. Supponiamo che una società francese incorpori una società italiana, con il conseguente configurarsi di una stabile organizzazione in Italia. Supponiamo che il costo della partecipazione (valore rilevante di fronte al fisco francese) sia superiore rispetto al valore della stabile organizzazione (valore rilevante di fronte al fisco italiano). La società francese, annullando il costo della partecipazione, può allineare il valore fiscale (italiano) dei beni ricevuti a quello della partecipazione (valore fiscale francese). In proposito la Direttiva non dice nulla; se ne deduce che non è possibile l’utilizzo del disavanzo per rivalutare i beni ricevuti, dato che il nuovo valore dovrebbe aver rilevanza in Italia, e un simile disavanzo significherebbe trasferire nell’orbita fiscale italiana un “valore fiscale” francese.
Le riorganizzazioni in “entrata”. Nelle riorganizzazioni in entrata, vi è una società residente che ha il ruolo di organizzazione derivata (o beneficiaria), in quanto è la società che:
- incorpora una società non residente;
- beneficia della scissione di una società non residente;
- riceve il conferimento di una società non residente.
In tali casi l’avanzo o il disavanzo di fusione non hanno rilievo. Si pone il problema di attribuire un valore fiscale ai beni che entrano nell’orbita fiscale italiana.
N.B. La Direttiva “madre-figlia”
La direttiva numero 435/90/CEE, nota come “madre-figlia”, disciplina la tassazione sui dividendi nei casi in cui le società appartengano a Stati diversi UE, eliminando la doppia imposizione giuridica (doppia tassazione a carico dello stesso soggetto) ed economica (doppia tassazione dello stesso reddito a carico di soggetti diversi). La Direttiva è stata modificata dalla numero 123/2003/CE. La seconda prende in considerazione i gruppi: si applica solo alle società che risiedano in uno Stato membro, e siano assoggettate, senza possibilità di opzione e senza esserne esentate, ad una delle imposte indicate nella Direttiva. Dal 2009 è necessario che la partecipazione della società madre sia almeno del 10% (prima era 25%). Gli Stati possono prevedere un holding period minimo di 2 anni (l’Italia un anno). La Direttiva del 2003 estende la disciplina anche ai casi in cui i dividendi siano percepiti da una stabile situata in uno Stato membro. Essa disciplina sia gli utili che la società “madre” riceve dalla “figlia” (utili in entrata), sia quelli distribuiti dalla “figlia” (utili in uscita). Lo Stato della “figlia” può tassare gli utili societari, ma non può applicare imposte sui dividendi “in uscita”. Lo Stato della “madre” può esentare i dividendi (salvo la facoltà di tassarne il 5%), o attribuire alla società madre il diritto di dedurre, dall’imposta sui dividendi, un importo corrispondente all’imposta pagata dalla società figlia. È vietato applicare ritenute alla fonte (articolo 6). La Direttiva consente di escludere, in tutto o in parte, la deducibilità dei costi di gestione della partecipazione. I costi non deducibili possono essere quantificati in misura forfettaria non superiore al 5% dei dividendi.
Tassazione dei dividendi e royalties infragruppo. La Direttiva numero 49/2003/CE sopprime l’imposizione alla fonte di interessi e canoni, tassati una sola volta nello Stato di residenza del percettore. Quest’ultima contiene una clausola antiabuso, che consente alle amministrazioni nazionali di revocare l’esenzione qualora le transazioni abbiano come obbiettivo l’evasione o l’elusione delle imposte. La Direttiva trova applicazioni solo tra società residenti nella Comunità.
La Direttiva sulla tassazione del risparmio. Lo scopo è quello di consentire che, i redditi da risparmio, sotto forma di interessi corrisposti in uno Stato membro a persone fisiche residenti in altro Stato, siano soggette a imposizione unicamente nello Stato di residenza.