Parità e non discriminazione
1) Premessa: c’era già nel Trattato di Roma anche se non parlava proprio di uguaglianza, ma di libera circolazione. Però non ci si può basare sulla cittadinanza sulle discriminazioni. Le donne non potevano essere retribuite meno degli uomini. In questi anni sono state mobilitate tutte le fonti disponibili: Trattato, direttive, raccomandazioni e Corte. Il primo intervento riguarda la parità retributiva con la direttiva 75/117, poi in materia di parità di accesso all’impiego abbiamo la direttiva 76/207 e poi sulla parità di trattamento in tema di sicurezza c’è la 79/7 e poi altre 4direttive: 86/378 sulla parità nei regimi professionali, la 86/613 sulla parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici autonomi, la 96/34 sui congedi parentali, e la 97/80 sull’onere della prova della discriminazione. Con Amsterdam c’è stato un grande salto ben oltre la parità uomo donna: con la direttiva 2000/43 sulla lotta alle discriminazioni per razza ed etnie e con la direttiva 2000/78 sulla lotta alle discriminazioni di religione, handicap e tendenze sessuali. Queste direttive hanno influenzato la disciplina successiva. La direttiva 2002/73 che ha modificato il testo della 76/207. Le direttive recenti sono la 2006/54 che ha accorpato la 75/117, la 76/207, la 97/80 per rendere unica l’attuazione del principio di pari opportunità e lotta al trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. 2) Parità retributiva:art.141 Trattato: già nell’art. 119 o nel 141 TCE si erano introdotti alcuni concetti: a) retribuzione (qualsiasi compenso corrisposto direttamente o indirettamente in denaro o in natura al lavoratore per la dipendenza del rapporto di lavoro); b) termine di riferimento (parità di retribuzione per lavoro uguale); c) criteri di computo della retribuzione (quando è stabilita una retribuzione a tempo deve essere uguale a parità di posti del lavoro mentre quando è commisurata a cottimo cioè risultato deve fissarsi in base alle stesse unità di misura del risultato). Ci sono 2limiti: 1) la parità di retribuzione è solo per lavori identici e non anche per lavori simili o equivalenti; 2) l’art. non era direttamente applicabile ma si dovevano applicare delle norme Statali. Per ovviare ai limiti c’è stato l’intervento della Corte dal 1957 al ’75 poi c’è stata la prima direttiva e la Corte ha sostenuto che se c’è disparità di trattamento anche se lo Stato non ha recepito i principi si applicano ugualmente. A riguardo ci sono state molte sentenze tra cui la “Defrenne” che diceva che il diritto si può applicare anche tra lavori simili. 3) Direttiva 75/117 e le applicazioni giurisprudenziali: essa stabiliva la parità retributiva ma non ancora quella riguardante la questione uomo donna. È simile all’art.119 però c’è un principio di non discriminazione più ampio fra i sessi. Si devono eliminare le discriminazioni lavorative sul sesso se ci sono determinate classificazioni professionali per determinare le retribuzioni. La parità retributiva deve essere valutata a parità di qualifica e non può essere negata adducendo un minore rendimento del lavoro femminile. Ci deve essere parità anche se una donna occupa un posto precedentemente occupato da un uomo. Se invece la donna svolge un lavoro tipicamente femminile non si può fare un raffronto con il sesso maschile. Inoltre la Corte ha ribadito che non si può applicare solo a condizioni in cui il lavoratore e lavoratrice siano sotto lo stesso datore; e invece non è raffrontabile quando c’è un esternalizzazione dei servizi, la lavoratrice non può rivendicare un miglior trattamento dato ai dipendenti dell’impresa appaltante perché manca un soggetto responsabile della diseguaglianza. La casistica sulle ipotesi di discriminazioni dirette o indirette è molto ampia. Per quanto riguarda le discriminazioni indirette si può fare un ipotesi di discriminazione retributiva indiretta fra le più diffuse che è quella che può risultare da sistemi di classificazione del lavoro basati sulla forza fisica, sistemi che si incontrano nella prassi di diversi Paesi come la Germania. Secondo la Corte tali sistemi non sono incompatibili con la direttiva, anche se possono svantaggiare le donne a condizione che non nascondano una classificazione discriminatoria per sesso ma che siano oggettivamente giustificati. Per poterli ritenere legittimi il datore dovrà dimostrare che l’impiego della forza fisica è necessario allo svolgimento delle mansioni a cui i lavoratori sono preposti. 5) Sistemi di classificazione e discriminazioni retributive: Tale criterio contrasta la distinzione classificatoria fra lavori pesanti e lavori leggeri, questi ultimi ritenuti esclusivamente femminili e sotto retribuiti, come nella sentenza “Danfoss” c’erano retribuzioni medie per le donne inferiori a quelle degli uomini, però il datore di lavoro può dimostrare che gli schemi classificatori in vigore siano necessari per la corretta esecuzione dei compiti. Però se la flessibilità fa si che le lavoratrici siano sfavorite il criterio deve considerarsi illegittimo perché non è concepibile che il lavoro femminile sia qualitativamente inferiore a quello maschile. Nella sentenza “C-309/97” si sostiene che per valutare l’equivalenza fra i lavori è necessario tenere conto della natura dell’attività svolta, delle condizioni lavorative e della qualifica professionale. Non ci può essere quindi equivalenza lavorativa e retributiva se si svolge la stessa attività con 2qualifiche diverse. In Ita la resistenza a lungo manifestata dalla Giurisprudenza ad accertare forme di discriminazioni indirette è stata smentita dalla legge n°125/1991 che sancisce esplicitamente l’estensione del divieto alle discriminazioni indirette. La Corte nel caso “Jenkins”, uno dei primi casi di discriminazione indiretta, ha sostenuto che una retribuzione oraria per i lavoratori part-time è discriminatoria se la maggior parte delle lavoratrici sono donne. 6) Concetto di retribuzione: art.141 TCE. La tendenza è quella di avere un’accezione ampia del concetto di retribuzione: il concetto è comprensivo di molteplici elementi retributivi legati a circostanze specifiche (come indennità e premi) e differite (finalità previdenziali). Dal concetto di retribuzione sono state escluse sia le retribuzione pagate dal datore agli istituti pubblici di previdenza obbligatoria, sia le prestazioni di questi, in quanto non costituiscono un compenso erogato al lavoratore, ma rispondono a considerazioni di politica sociale. La Corte invece ha riconosciuto essere di natura retributiva le prestazioni e i contributi pagati dal datore nel caso di fondi pensionistici sia sostitutivi della previdenza pubblica obbligatoria sia complementari ed integrativi. La sentenza “Barber” è un caso di discriminazione alla rovescia nel quale le donne potevano ricevere benefici pensionistici a 50anni mentre gli uomini a 55. È stata ritenuta discriminatoria. Poi la Corte ha riconosciuto la natura retributiva e altri benefici attribuiti al lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro quali le riduzioni ferroviarie a favore del coniuge e dei figli del dipendente maschio fruite dopo la cessazione del rapporto; l’indennità di licenziamento per la riduzione del personale prevista dalla legislazione inglese; indennità di fine rapporto.7) Parità nelle condizioni di lavoro: direttiva 76/207. È molto importante e innovativa perché riguarda la parità di trattamento fra uomo e donna sull’accesso al lavoro, sulla formazione, sulla promozione professionale e sulle condizioni di lavoro (retribuzione, sicurezza, sanità, avanzamento di carriera). La Corte ha sostenuto che è legittima una legge tedesca che applica il licenziamento alle piccole imprese e nel caso in cui ci siano donne non è discriminazione perché non si licenzia per un criterio basato sul sesso, ma per la dimensione dell’impresa. la direttiva è stata poi aggiornata in seguito con la 2002/73 che ha introdotto le azioni positive e contiene il contenuto delle 2000/43 e 2000/78 come la definizione di discriminazione diretta: situazione in cui una persona è trattata in modo meno favorevole in base al sesso. Questa direttiva definisce anche la discriminazione indiretta. Un innovazione importante è il “mainstreaming” come metodo di azione politica degli Stati Membri a incoraggiare i datori di lavoro alla formazione della prevenzione della discriminazione. 8) La tutela della dignità personale sul lavoro e la repressione delle molestie sessuali: E’ stato considerato a livello comunitario solo nell’ultimo ventennio. Solo alla fine del 1991 la Commissione è intervenuta su tale materia con la raccomandazione n°92/131 del 1991 a cui è allegato un codice di condotta su provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali. Ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro (inclusi atteggiamenti malaccetti di tipo fisico, verbale o non verbale) è definibile come molestia sessuale. Con le direttive 2000/43 e 2000/78 si è compiuto un doppio importante passo: 1) quello di inserire la condanna per le molestie in una fonte comunitaria vincolante; 2) quello di stabilirne contestualmente la qualificazione in senso discriminatorio, affermando che le molestie sono da considerarsi appunto una discriminazione. Ci sono 2tipi di molestie: 1) le molestie tout court definite come un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un’altra persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante , umiliante e offensivo; 2) le molestie sessuali integrate da un comportamento indesiderato a connotazione sessuale espresso in forma fisica verbale o non verbale avente lo scopo di violare la dignità di una persona creando un clima intimidatorio, ostile, degradante , umiliante e offensivo. 9) Esclusioni: Le esclusioni sono riferite ad attività per le quali il sesso rappresenta una condizione determinante. La Corte cerca di restringere le esclusioni dicendo che ci sono state molte illegittimità in Germania e GB. Invece in Irlanda è stata giustificata un esclusione delle donne dai corpi di polizia richiedenti in quel contesto nazionale l’uso delle armi da fuoco. Ci possono essere delle eccezioni alla parità nell’accesso all’occupazione per lo svolgimento di attività in cui è richiesta una caratteristica specifica di un sesso, laddove per la particolare natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui vengono espletate, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obbiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato. In Ita sono ammesse solo esclusioni limitate al settore dello spettacolo, arte e moda quando il sesso è essenziale per lo svolgimento della prestazione. 10) Cause di giustificazione delle discriminazioni: Sono le cause che possono giustificare effetti sproporzionalmente sfavorevoli per i lavoratori di un sesso. L’operatività di tali cause giustificatrici deve limitarsi alle discriminazioni indirette perché è una caratteristica essenziale del lavoro. Sentenza “Enderby” la Corte ha ammesso che ci possa essere differenza di retribuzione per ragioni di mercato nel caso in cui queste ragioni abbiano giocato un ruolo sufficientemente importante. Sentenza “Nolte” la Corte ha ritenuto giusta l’esclusione da obblighi pensionistici dei cosidetti lavori minori, cioè quelli prestati per un numero di ore e con retribuzione inferiori a certi minimi, pure se tale esclusione svantaggiava in misura percentualmente maggiore le donne, avvalorando l’esigenza di non appesantire con costi contributivi eccessivi occupazioni del genere, onde favorirne l’utilizzo sul mercato del lavoro. Nelle sentenze “Kutz-Bauer” e “Steinicke” i giudici comunitari hanno dovuto prendere posizione sulle regole di accesso all’istituto tedesco del lavoro a tempo parziale per motivi di età affermando che sono indirettamente discriminatorie. Con le sentenze “Seymour-Smith” e “Perez” i giudici hanno stabilito che è discriminatorio il comportamento secondo il quale la normativa britannica tutela i licenziamenti ingiustificati per chi ha svolto lavoro continuativo per due anni. 11) Parità e tutela delle lavoratrici: Le implicazioni del principio di parità hanno creato incertezze su 2piani diversi: 1) nei confronti delle normative tradizionali di tutela della donna lavoratrice e 2) rispetto alle misure preferenziali per le donne dirette a rimuovere ostacoli di fatto alle pari opportunità. In Ita il sistema è fra quelli che hanno interpretato in materia rigorosa l’incompatibilità fra parità e protezioni differenziali lasciando in vigore il divieto di lavorare se si è in maternità e il divieto di lavoro notturno. Quella relativa al lavoro notturno è stata eliminata in seguito alla pronuncia della Corte, in quanto tale norma era contraria alla parità fra uomo e donna. L’area più significativa per le deroghe è quella in materia di gravidanza e maternità come testimoniato dalle integrazioni apportate in proposito dalla direttiva 2002/73. La donna ha una protezione particolare: è illegittimo non assumere una lavoratrice perché è in stato di gravidanza o licenziarla per malattia originata da gravidanza e nemmeno si può rifiutare di assumere a tempo indeterminato una donna in cinta e non possono vietarle di ottenere delle qualifiche perche in congedo di maternità e ci deve essere l’aumento salariale anche se è in stato di congedo. Quindi secondo la direttiva 76/207 la donna che termina il congedo di maternità ha il diritto di riprendere il proprio lavoro o un lavoro equivalente secondo termini e condizioni che non siano meno favorevoli del precedente e beneficiare di eventuali miglioramenti avvenuti durante la sua assenza. È da considerarsi discriminazione ogni comportamento meno favorevole riservato ad una donna collegato alla gravidanza o al congedo di maternità. Nella sentenza “Hofmann” la Corte ha avallato, contro l’opinione della Commissione, la legislazione tedesca che attribuiva solo alla madre e non anche al padre il diritto all’astensione collettiva del lavoro fino al sesto mese di vita del bambino per la speciale relazione che c’è tra madre e figlio dopo la nascita. Invece nella sentenza “Griesmar” la Corte ha ritenuto discriminatoria l’esclusione dal beneficio della maggiorazione di anzianità, utile ai fini del calcolo della pensione di vecchiaia, della misura di un anno per ogni figlio, dei lavoratori padri in grado di provare di aver preso a carico l’allevamento dei propri figli. 12) Congedi parentali: Direttiva 96/34. Il congedo parentale consiste nel diritto di tutti i lavoratori di ambo i sessi di astenersi dal lavoro in occasione della nascita o dell’adozione di un bambino, affinché possano averne cura per un periodo min di 3mesi fino a un età non superiore a 8anni. Spetta agli ordinamenti nazionali proteggere i lavoratori da eventuali licenziamenti per congedo e inoltre il lavoratore ha diritto di tornare allo stesso posto di lavoro o ad un lavoro equivalente. Inoltre i lavoratori hanno il dritto di astenersi o di assentarsi dal lavoro per ragioni familiari urgenti, per malattie, infortuni che rendono indispensabile la presenza immediata di tale lavoratore. Questa direttiva è stata recepita dal D.lgs. 151 del 2001 che ha regolato entrambi gli istituti. Prima della direttiva 96/34 è stata emanata una raccomandazione per la custodia dei bambini che promuove l’adozione di iniziative che permettano a uomini e donne di conciliare le loro responsabilità professionali con quelle famigliari e educative derivanti dalla custodia dei bambini. La Corte ha sostenuto che non si possono escludere completamente le lavoratrici in congedo parentale da una gratifica natalizia erogata senza tenere conto dei periodi di lavoro svolti nell’anno, mentre tale esclusione è legittima se l’erogazione della gratifica è subordinata alla sola condizione che il lavoratore si trovi in servizio attivo al momento della concessione. È stato condannato dalla Corte il Lussemburgo perché non garantiva un congedo parentale della durata min di 3mesi. 13) Parità e azioni positive: I provvedimenti preferenziali verso le donne portarono a reazioni contrastanti all’interno dell’unione europea, però le misure preferenziali sono finalizzate alle pari opportunità e non solo alla parità di trattamento. E soprattutto le azioni positive hanno sancito delle reazioni; esse sono azioni che si usano per evitare svantaggi professionali nei confronti delle donne e si è chiesto se sono legittime le azioni non volontarie e non temporanee che assumono carattere restrittivo nelle imprese a favore delle donne. La Corte ha ammesso l’utilizzabilità delle azioni positive con la direttiva 76/207, però poi negli anni ’90 con la sentenza “Kalanke” ha ritenuto incompatibile una legge del Land tedesco di Brema che accordava automaticamente a parità di qualificazione dei candidati ritenuti idonei per un assunzione o una promozione la preferenza a quelli di sesso femminile nei settori nei quali le donne erano rappresentate in modo insufficiente (cioè occupavano meno della metà dei posti in organico nelle specifiche categorie e mansioni). Poi però con il Trattato di Amsterdam si è modificato l’art.119 con il 141.4 del TCE, stabilendo che allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella via lavorativa il principio della parità di trattamento non contrasta con il fatto che uno Stato Membro adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali. Inoltre l’art.137 dice che bisogna sostenere l’azione degli Stati Membri anche nel settore della parità fra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro e il trattamento sul lavoro. L’uguaglianza fra uomo e donna fa parte anche dell’art.23 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000. Parallelamente a queste innovazioni anche l’orientamento della Corte si è modificato: in una pronuncia riguardante un caso analogo alla sentenza “kalanke” la Corte è pervenuta a conclusioni diverse giudicando compatibile col diritto comunitario la norma sottopostale perché sanciva la preferenza delle candidate non in assoluto, ma in condizione che non prevalessero motivi inerenti alla persona di un candidato di sesso maschile. Una normativa preferenziale a favore delle donne, in sostanza, è legittima se la priorità non è assoluta ma se ammette variazioni e deroghe riferite a qualità personali dei candidati. L’importante è che le qualifiche siano sufficienti e allora in tal caso si può usare la preferenza del sesso sottorappresentato. Comunque tutt’ora nonostante l’azione comunitaria le azioni che privilegiano le donne sono limitate. Però nei 5anni finali del millennio ci sono state 2sentenze in favore delle donne: la prima “Lommers” garantiva alle sole donne di mettere i propri figli in asili nido, a meno che gli uomini non avessero loro ottenuto la custodia dei figli; la seconda “Schnorbus” ha ritenuto che fossero contrarie alla parità norme nazionali che garantivano vantaggi nel lavoro e nel tirocinio ai candidati maschili che avevano prestato il servizio militare o civile in adempimento di un obbligo al quale le donne non sono sottoposte. 14) Profili problematici: Per attuare la disciplina antidiscriminatoria negli Stati bisogna introdurre le misure necessarie per permettere a tutti quelli che si ritengono lesi di far valere i propri diritti in via giudiziaria. La Corte ha sempre ribadito che le sanzioni devono essere adeguate e idonee a risarcire il danno al soggetto discriminato. Però lasciando libertà agli Stati di decidere visto che sono obbligati solo per il risultato e non per i strumenti da utilizzare. Spesso privilegiano la nullità e il risarcimento del danno rispetto a sanzioni più complesse per ristabilire la parità lesa. La Corte ha stabilito che l’adeguatezza della sanzione va valutata in relazione all’obbiettivo da riparare la specifica violazione della parità. Nel caso di licenziamento discriminatorio le sanzioni adeguate sono il reintegro o il risarcimento del danno subito, però devono essere danni effettivi, senza escludere gli interessi per il ritardo del risarcimento e lo Stato non può fissare un tetto massimo che ne limiti a priori il compito. L’insieme delle sanzioni rientra nel nuovo testo della direttiva 76/207 e devono essere di carattere: restitutorio-ripristinatorio o di carattere risarcitorio e inoltre possono agire le associazioni e le organizzazioni in via giurisdizionale o amministrativa per conto o a sostegno della persona lesa e con il suo consenso. In seguito è stata introdotta la direttiva 97/80 sull’onere della prova e discriminazioni basate sul sesso; con questa direttiva viene introdotto un aspetto critico sull’onere della prova. La Corte ha dichiarato che in presenza di un aspetto pregiudiziale e non trasparente nei confronti delle donne, è il datore a dover dare la motivazione della non discriminazione del sistema stesso; tale posizione implica l’ammettere un inversione parziale dell’onere probatorio. Fino a questo momento il lavoratore che faceva causa al datore doveva dare la prova che il datore lo aveva discriminato; ora deve solo provare che c’è la discriminazione, mentre il datore deve provare invece che non ci sono tali elementi discriminatori. La direttiva 97/80 ha anche introdotto il concetto di discriminazione indiretta, e ha aumentato il principio di parità impedendo agli Stati Membri con dati statistici, di dimostrare la sottorapresentazione delle donne in certe posizioni e nell’avanzamento di carriera. Nel caso di nullità di clausole contrattuali per discriminazione la Corte ha stabilito che le retribuzioni fissate per le donne vanno sostituite con quelle più alte date agli uomini. Ora il primo principio di uguaglianza trova sostegno nelle varie politiche comunitarie, nei programmi di azione della Commissione e nell’art.137 TCE che sostiene l’azione negli Stati per la parità nei suoi vari aspetti. 15) Parità nella sicurezza sociale: E’ l’area di applicazione più tardiva e controversa del principio comunitario di parità fra uomini e donne. Con la direttiva 76/207 ha escluso la parità dell’applicazione alla previdenza sociale che avviene poi con la 79/7 (parità nei regimi di pubblica sicurezza sociale) e allora il principio di parità si applica ai regimi previdenziali contro la malattia, l’invalidità, la vecchiaia e li infortuni sul lavoro. Anche se ha avuto tempi lunghi per l’entrata in vigore, 6anni, si estende a tutti i lavoratori, pensionati e lavoratori la cui attività sia interrotta per malattia, infortunio, disoccupazione involontaria o per occuparsi di un parente invalido. Vieta ogni discriminazione diretta e indiretta nei sistemi di previdenza legale. La direttiva prevede anche delle eccezioni al principio di parità, che però devono essere interpretate restrittivamente, come ad es. la fissazione del limite d’età per la pensione di vecchiaia. Deve prevalere il principio di parità nel caso di prestazioni economiche come un assegno per combustibile invernale erogato agli uomini con almeno 65anni di età e donne con almeno 60anni; vale anche nel caso di pensione di vecchiaia anticipata per inabilità al lavoro, per la quale la normativa nazionale dopo la scadenza del termine di trasposizione della direttiva ha previsto un limite di età diverso a seconda del sesso. La Corte ha sostenuto che relativamente alla pensione devono essere assoggettati alla parità sia i contributi sia le prestazioni sia l’età pensionabile. La Corte nel caso “Barber” ha giudicato discriminatori gli schemi pensionistici negoziati a livello aziendale. L’età pensionabile dopo il caso “Barber” rientra quindi nelle condizioni di lavoro e sia la Corte sa l’art.119 hanno esteso la parità all’età pensionabile. Per la previdenza pubblica invece l’età pensionabile può rimanere differenziata temporaneamente per dare tempo agli Stati per adattare i loro sistemi legali anche se gli uomini devono pagare contributi sociali per un periodo più lungo rispetto alle donne. 16) Accorpamento della disciplina sulla parità tra lavoratori e lavoratrici: direttiva 2006/54: Per accorpare le direttive precedenti sono state abrogate le: 75/117, 76/207, 86/378, 97/80; mentre non rientra fra questa la 79/7. Contiene inoltre disposizioni su la parità nei regimi professionali di sicurezza sociale e sulla parità delle condizioni di lavoro. La definizione di discriminazione diretta e indiretta si applicano a tutti i campi; le molestie e le molestie sessuali sono definitivamente comprese, come la gravidanza e il congedo per maternità rientrano nella discriminazione. Inoltre gli Stati membri devono sollecitare la prevenzione dalle discriminazioni. 17) Parità di trattamento in generale: direttive 2000/43 e 2000/78: Grandi novità sono state introdotte con il Trattato di Amsterdam per combattere le discriminazioni basate sul sesso, razza, etnie, handicap, età e tendenze sessuali. La direttiva 2000/43 si propone di contrastare le discriminazioni per etnia e per razza. La 2000/78 ha caratteristiche soggettive: handicap, età, orientamento sessuale. Sono sorti problemi perché la questione delle donne viene paragonata a quella dei portatori di handicap, quando invece le donne stesse non costituiscono una minoranza. La 2000/43 riguarda la sfera lavoristica previdenziale stabilendo regole valevoli a 360°, cioè anche per gli aspetti attinenti alle prestazioni sociali, all’istruzione, all’accesso e alla fornitura di beni e servizi. Si occupa delle molestie, si occupa di imporre agli Stati Membri di istituire degli organismi per la promozione della parità di trattamento senza discriminazioni di razza o origine etnica. Le azioni positive sono legittime e ribadiscono la parziale inversione dell’onere della prova. La direttiva 2000/78 concerne invece l’occupazione e le condizioni di lavoro e non si applica ai pagamenti di qualsiasi genere effettuati da regimi statali inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di protezione sociale. Riguarda l’occupazione e le condizioni di lavoro. Non ci deve essere differenziazione per religione o per convinzioni personali; devono essere previste a favore dei disabili delle soluzioni ragionevoli per le loro situazioni, per consentire loro una formazione e che comunque non ci sia un onere sproporzionato per i datori. Non ci devono essere discriminazioni basate sull’età a meno che non siano ragionevolmente giustificate come: definire le condizioni speciali di accesso al lavoro, alla formazione professionale e all’occupazione per i giovani e per gli anziani; fissare condizioni di età e di esperienza min, fissazione di un età max per l’assunzione basata su condizioni di formazione richieste per tale lavoro. Entrambe le direttive non riguardano le discriminazioni basate sulla nazionalità. Viene data una definizione di discriminazione indiretta: essa si determina quando una persona con certe caratteristiche è in posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre. Entrambe le direttive includono nella protezione anti discriminatoria anche le molestie fornendone una definizione generale e rimettendo agli ordinamenti nazionali una più precisa definizione. Sono state recepite nell’ordinamento italiano nel 2003 rispettivamente con i D. lgs. n°215 e 216. La sentenza “Mangold” è importante perché la Corte è andata contro il legislatore tedesco che consentiva di stipulare contratti a tempo determinato anche oltre i 52anni di età.