L’estinzione del rapporto di lavoro
Modalità di estinzione. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione
Tale impossibilità può essere definitiva oppure temporanea, ma talmente prolungata nel tempo da poterla assimilare alla prima, avuto riguardo all’interesse delle parti (artt. 1463 e 1256 c.c.). La prestazione della retribuzione, in quanto obbligazione pecuniaria, non è mai impossibile (vedi diritto privato). Il perimento di uno stabilimento (es.: alluvione) e l’inidoneità fisica e professionale del lavoratore a certe mansioni non costituiscono, necessariamente, impossibilità di adempiere all’obbligazione di lavoro, perché il lavoratore potrebbe essere adibito a mansioni diverse o ad altri stabilimenti. Per quanto riguarda l’impossibilità si deve distinguere, quindi, tra eventi concernenti l’impresa o il lavoratore.
- La risoluzione consensuale. La risoluzione giudiziale per inadempimento
- Il recesso nel rapporto di lavoro: i reali interessi in gioco
- Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavviso
- Il recesso per giusta causa
- La disciplina limitativa dei licenziamenti e la sua progressiva estensione
- Il recesso ad nutum: da regola ad eccezione
- Le ipotesi di limitazione temporale del licenziamento
- I limiti sostanziali (causali) al potere di licenziare
- Giustificato motivo soggettivo ed oggettivo
- La giusta causa
- Nullità del licenziamento
- La forma del negozio di licenziamento
- L’impugnazione del licenziamento e il termine di decadenza. L’onere della prova
- L’art. 18 dello Statuto: la tutela reale
- L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculum iuris
- Il licenziamento disciplinare e l’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori
- Altre ipotesi di invalidità del licenziamento
- Le organizzazioni di tendenza
- Il tentativo obbligatorio di conciliazione
La risoluzione consensuale. La risoluzione giudiziale per inadempimento
Il datore e il prestatore pervengono, di comune accordo (1321 e 1372 c.c.), all’estinzione del rapporto. Il ricorso alla risoluzione giudiziale del contratto di lavoro per inadempimento (recesso unilaterale) può essere esercitato anche dal contraente adempiente nei confronti di quello inadempiente, laddove le norme sulla risoluzione giudiziale siano dirette a tutelare lo stesso interesse in un modo più macchinoso e indiretto, secondo il principio di specialità.
Il recesso nel rapporto di lavoro: i reali interessi in gioco
Il recesso costituisce un atto o negozio unilaterale e recettizio (1324 c.c.), in quanto espressione della volontà di una sola delle parti e diretto produrre effetti nella sfera giuridica dell’altra. Nel contratto di lavoro occorre distinguere tra il recesso del datore (licenziamento: espressione di interessi patrimoniali) e del lavoratore (dimissioni: di libertà morale). La corretta individuazione degli interessi in gioco consente di comprendere i principi liberali (prima della redazione della Costituzione) della perfetta eguaglianza giuridica tra i contraenti, mentre ad oggi la condizione di contraente debole del prestatore ha indotto il legislatore a limitare i poteri del datore.
Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavviso
Il Codice Civile precede il principio della libera recedibilità (ad nutum) di entrambe le parti con il preavviso, senza essere tenute ad alcuna giustificazione. L’art. 2118 prevede l’obbligo di dare preavviso nella misura stabilita dalla contrattazione collettiva. In caso contrario, il recedente è tenuto a corrispondere un’indennità risarcitoria detta, appunto, “indennità di mancato preavviso”. Una questione che divide la dottrina è quella della natura reale o obbligatoria del preavviso. Appare più coerente con la ratio della norma (la tutela della prosecuzione del rapporto di lavoro) l’adempimento specifico dell’obbligo del preavviso piuttosto che il pagamento dell’indennità.
Il recesso per giusta causa
L’art. 2119 c.c. prevede che il recesso di entrambi i contraenti dal contratto di lavoro possa essere immediato, qualora si verifichi una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (c.d. recesso per giusta causa). Tale causa esonera dal preavviso. In caso, persino, di dimissioni, al lavoratore spetta l’indennità di mancato preavviso. Il licenziamento individuale: si vedano le pagg. da 9 in poi di “Appunti presi in classe seconda parte.doc”.
La disciplina limitativa dei licenziamenti e la sua progressiva estensione
La disciplina codicistica sin qui descritta continua ad applicarsi alle dimissioni del lavoratore, il cui potere unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro non conosce altri limiti che il preavviso. Il potere di recesso del datore (licenziamento) invece è stato oggetto di interventi legislativi limitativi che hanno introdotto un obbligo generale di giustificazione del recesso, a garanzia del quale si può arrivare sino alla tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) o solo obbligatoria (alternativa tra riassunzione o pagamento di una penale a titolo risarcitorio, e non di retribuzione!).
Questi interventi legislativi si sovrappongono agli artt. 2118 (il recesso dal contratto a tempo indeterminato) 2119 (determinato) c.c. La prima norma che limita il potere del datore è la legge 604 del ’66, che ha recepito gli accordi collettivi. Nel ’70, con l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori si è ampliata questa norma sino a raggiungere la tutela reale. Il suo campo di applicazione era inizialmente limitato dall’art. 35 dello stesso Statuto alle unità con più di 15 dipendenti. La necessità di tutelare anche i lavoratori delle piccole imprese ha portato alla redazione della L. 108 del 1990, che ha sancito il generale principio della giustificazione del licenziamento (recesso vincolato).
Il recesso ad nutum: da regola ad eccezione
La legge 108 trova applicazione solo per talune particolari categorie: per i lavoratori domestici, gli sportivi professionisti ed i lavoratori in prova, nonché per i lavoratori che abbiano maturato il diritto alla pensione. Restano, invece, esclusi i dirigenti, in virtù del particolare rapporto fiduciario con il datore a cui sono sottoposti.
Le ipotesi di limitazione temporale del licenziamento
Durante certi periodi è possibile licenziare solo per giusta causa, ai sensi dell’art. 2110: infortunio, malattia, gravidanza o puerperio, servizio militare, funzioni pubbliche ed elettive.
I limiti sostanziali (causali) al potere di licenziare
La legge 604 del ’66 prevede per la legittimità del licenziamento una giusta causa (recesso ordinario) o un giustificato motivo (straordinario), quindi il riconoscimento di un vero e proprio diritto del lavoratore alla stabilità. La differenza tra recesso ordinario e straordinario comporta effetti differenti sul preavviso, che spetta solo al lavoratore licenziato per giustificato motivo. Il TFR, invece, spetta sempre e comunque al lavoratore (prima del ’66 non era così). Infine, le conseguenze connesse dalla legge all’illegittimità del negozio di licenziamento, per mancanza di tali requisiti causali (assenza di giusta causa o giustificato motivo), non sono sempre le stesse ed occorre distinguere:
- tutela reale annunciata dall’art. 18 Statuto: il licenziamento illegittimo è esplicitamente definito annullabile;
- tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge 604: il licenziamento non è annullabile ma soltanto illecito. Espone il datore a conseguenze sanzionatorie.
Giustificato motivo soggettivo ed oggettivo
Innanzitutto la nozione di giusta causa si trova nell’art. 2119 c.c., mentre il giustificato motivo nella legge 604.
L’art. 3 della legge 604 distingue tra un giustificato motivo:
- subiettivo (soggettivo): si realizza quando il prestatore incorre in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, con riferimento all’art. 1455 c.c.: richiede che non sia di scarsa importanza per l’altro contraente.
- obiettivo (oggettivo): quando vi siano ragioni inerenti all’attività produttiva (esigenze tecnico-economiche).
La giusta causa
L’art. 2119 c.c. si limita a definire la giusta causa come quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro. Questa definizione generale ha dato luogo a non poche vicende. Prima della legge 604, si pensava che perfino eventi esterni al rapporto potessero menomare il rapporto di fiducia personale con il lavoratore. Dopo, il giustificato motivo si è dovuto apprezzare sul piano quantitativo (gravità) e non qualitativo (solo riferito alla fiducia). Il concetto di fiducia va riportato entro i limiti oggettivi dell’esattezza dei successivi adempimenti: il datore deve poter concedere altri compiti al lavoratore, in futuro, senza temere che egli possa esser inadempiente o inaffidabile. I tipi contrattuali di giusta causa sono rimandati ai contratti collettivi, salvo che il giudice possa prevederne altri.
Nullità del licenziamento
È nullo il licenziamento per: motivi discriminatori, matrimonio, maternità.
- L’art. 4 della legge 604 del ’66 stabilisce che i licenziamenti determinati da “ragioni politiche, religiose e sindacali” sono nulli, “indipendentemente dalla motivazione adottata”.
- L’art. 15 Statuto contempla anche le ragioni di “sesso, razza e lingua”.
- L’art. 3 della legge 108 del 1990 stabilisce che, nei casi di discriminazione, è sempre applicabile la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro).
La forma del negozio di licenziamento
La legge impone al licenziamento un ulteriore limite, che attiene alla forma con il quale il potere viene esercitato. L’art. 2 della 604 stabilisce che il licenziamento sia comunicato in forma scritta. Non è obbligatoria la comunicazione delle motivazioni, ma, qualora il lavoratore ne faccia richiesta, entro 15 giorni, il datore dovrà specificarle, per 2 motivi:
- Spesso è poco opportuno rendere pubblici “certi” motivi;
- Il lavoratore deve conoscerli pienamente per poter impugnare, in propria difesa, il provvedimento.
La sanzione è l’inefficacia del licenziamento, intesa in questo caso quale nullità.
L’impugnazione del licenziamento e il termine di decadenza. L’onere della prova
L’art. 5 della 604 rimuove i dubbi sulla determinazione della parte su cui grava l’onere della prova: “spetta al datore”. Egli dovrà provare i fatti che giustificano il recesso, mentre il lavoratore sarà tenuto a dimostrare i fatti costitutivi del proprio diritto alla stabilità, reale o obbligatoria: (art. 6) l’impugnazione del licenziamento è un diritto del lavoratore. La decadenza di tale diritto è stabilità nel limite di 60 giorni.
L’art. 18 dello Statuto: la tutela reale
La tutela reale si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non, con più di 15 dipendenti nell’unità dove opera il licenziato o con, globalmente, più di 60 lavoratori. A fronte di un licenziamento illegittimo (inefficace per mancanza di forma, annullabile per mancanza di giustificazione o nullo perché discriminatorio) il lavoratore deve essere reintegrato nel posto di lavoro, ed ha anche diritto ad un risarcimento del danno subito.
L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculum iuris
Il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore in forza dell’ordine contenuto nella sentenza di condanna. L’art. 18 affida l’esecuzione di tale ordine allo stesso datore, che è tenuto a rivolgere al lavoratore un apposito invito a riprendere il servizio. In assenza di tale invito, il datore verserà in situazione di mora credendi (art. 1205 ss.c.c.), con la conseguenza che il lavoratore, nonostante l’inattività, avrà diritto alla retribuzione. Tuttavia, se il lavoratore non accetta l’invito entro 30 giorni, il rapporto si intenderà risolto per dimissioni.
L’art. 18 stabilisce che il datore è tenuto alla reintegrazione ed al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a cinque mensilità, a titolo risarcitorio, per il periodo che va dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, nonché il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. È prevista anche un’indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione, che il lavoratore può preferire, costringendo il datore al pagamento di quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il licenziamento disciplinare e l’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori
Quest’art. sottopone il potere disciplinare a vincoli di carattere procedurale, quali l’affissione del codice disciplinare e la contestazione degli addebiti. Esso prevede che, “fermo restando quanto disposto dalla legge 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”. Sulla base di una pronuncia della Corte Cost., la Cassazione è pervenuta ad applicare i vincoli posti dall’art. 7 a tutti i licenziamenti disciplinari. Prima della legge 108 del 1990 (secondo Corte Cost.) non si applicava per le piccole imprese (< 15 dipendenti).
Nei casi di inosservanza dell’art. 7, la Cassazione ha escluso che ricorra un’ipotesi di nullità (non va contro a principi fondamentali) bensì il licenziamento è da considerarsi illegittimo e da trattarsi alla stregua di un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo. Ricordiamo che, per quanto riguarda i dirigenti, essi sono sottoposti al regime della libera recedibilità e le garanzie procedurali previste dall’art. 7 sono applicabili solo qualora il datore non voglia corrispondere l’indennità di mancato preavviso.
Altre ipotesi di invalidità del licenziamento
Riprendiamo quanto detto al punto “L’art. 18 dello Statuto: la tutela reale.” . La Corte Costituzionale ha ricordato che quest’articolo ha una forza espansiva: si applica a tutte le ipotesi di invalidità ed inefficacia. Tuttavia è applicabile solo entro certi limiti dimensionali, al di sotto dei quali i meccanismi sanzionatori divergono. L’art. 8 della 604 prevede, infatti, che la tutela obbligatoria si applichi solo nel caso di licenziamento intimato senza giusta causa o motivo. Resta, quindi, aperto il problema con riferimento alle ipotesi:
- di nullità del licenziamento della lavoratrice madre, del licenziamento motivato dalla domanda o dalla fruizione di congedi per motivi di cura familiare o di formazione, nonché per causa di matrimonio: in questi casi, tanto nell’area della tutela obbligatoria quanto reale, gli effetti sono quelli comuni di diritto privato, da cui deriverà la continuità giuridica del rapporto.
- licenziamento inefficace (che secondo l’art. 2 della 604 non produce alcun effetto, quindi nullo secondo l’orientamento maggioritario) per mancanza di forma. La legge 108 del 1990 ha introdotto un obbligo di comunicazione in forma scritta del licenziamento anche del dirigente.
- licenziamenti illegittimi in violazione delle garanzie procedurali previste dall’art. 7 Statuto, infine, sono considerati dalla giurisprudenza equiparabili a licenziamento ingiustificato.
Le organizzazioni di tendenza
L’art. 4 della legge 108 del ’90 definisce le organizzazioni che perseguono fini ideologici, escludendo l’applicabilità dell’art. 18 Statuto ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto. Si deve dunque dedurre la tutela obbligatoria per i dipendenti da tali organizzazioni. La disposizione ha lasciato irrisolte le questioni relative al licenziamento nelle organizzazioni di tendenza, ed in particolare quelle della giustificatezza del licenziamento.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione
L’art. 5 della 108 del ’90 introduce tale obbligo, da esperirsi in sede amministrativa, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale di accertamento dell’illegittimità del licenziamento. In difetto di tale presupposto, il giudice fissa un termine di massimi 60 giorni per l’esperimento. L’intera questione va oggi riconsiderata alla luce.