La prestazione di lavoro
Potere direttivo e disciplinare.
L’art. 2104 sotto la rubrica “diligenza del prestatore di lavoro” fissa due requisiti caratteristici della prestazione:
- La diligenza
- L’obbedienza
- La diligenza
- L’obbedienza
- L’obbligo di fedeltà, il divieto di concorrenza e le invenzioni
- Il potere disciplinare ed i suoi limiti
- I controlli finalizzati alla salvaguardia del patrimonio aziendale
- I controlli sull’attività lavorativa
- Gli accertamenti sanitari
- La procedimentalizzazione dei poteri di lavoro
- Le mansioni e la qualifica
- La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni
- L’inquadramento del prestatore di lavoro
- Le categorie legali
- La distinzione tra operai ed impiegati
- I dirigenti
- I quadri intermedi
- Mutamento di mansioni e dequalificazione
- La mobilità orizzontale
- La mobilità verso l’alto
- Il trasferimento del lavoratore
- Ambiente di lavoro e durata della prestazione
- Il danno biologico (art. 9 Statuto)
- La tutela della salute nel “famoso” decreto “626” del ‘94
- Orario di lavoro e determinazione della prestazione
- L’evoluzione storica dell’orario di lavoro
- Gli sviluppi recenti
- I periodi di riposo
La diligenza
L’obbligazione assunta dal lavoratore lo vincola s sottoporsi alle direttive del datore, il quale non è titolare di una semplice pretesa alla prestazione, ma anche di un potere direttivo sulla sua esecuzione. Secondo l’art. 1176, “nell’adempiere all’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia” e “nell’adempimento professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata” e dovuta. La diligenza dell’art. 2104 non è intesa come concetto etico, ma è riferita alle modalità di attuazione. Oltre alla natura della prestazione dovuta l’art. prevede altri due criteri:
- L’interesse della produzione nazionale: le attività economiche dovevano tendere ad un fine comune. Tale riferimento è stato abrogato implicitamente con la caduta delle corporazioni.
- L’interesse dell’impresa; esso è possibile in senso:
- Oggettivo (dell’impresa)
- Soggettivo (dell’imprenditore)
L’obbedienza
Essa si manifesta nel rispetto del potere direttivo. Esso può essere demandato ai collaboratori secondo principi gerarchici. I comandi dell’imprenditore possono essere di dure tipi:
- attinenti all’organizzazione del lavoro
- attinenti alla regolamentazione della convivenza della comunità “impresa”.
L’obbligo di fedeltà, il divieto di concorrenza e le invenzioni
L’art 2105 c.c. tutela la capacità di concorrenza (competitività) dell’impresa. I c.d. obblighi di protezione del creditore (l’imprenditore) si sostanziano nel divieto di svolgere attività in concorrenza con quella dell’impresa e nel divieto di divulgare o utilizzare a vantaggio proprio o altrui “notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa”. Questo divieto non va confuso con quello di concorrenza sleale perché l’art. 2598 non prevede alcun rapporto contrattuale fra danneggiato e danneggiante. L’art. 2125 ha previsto la possibilità di stipulare un patto di non concorrenza (per il quale è richiesta la forma scritta) anche per un periodo successivo alla cessazione del rapporto (generalmente 3 anni, 5 per i dirigenti). Il R.D. del ’39 n°1127 stabilisce, in tema di brevetti industriali, 3 casi:
- se l’attività inventiva è oggetto del contratto di lavoro, i diritti derivanti dall’invenzione del lavoratore appartengono al datore
- se l’attività non è oggetto del contratto, ma l’invenzione sia comunque realizzata nell’esecuzione di un contratto, i diritti appartengono ancora al datore, ma il lavoratore ha diritto ad un equo premio
- se l’invenzione è realizzata dal lavoratore in maniera indipendente, ma riguarda il campo di attività dell’impresa, i diritti spettano al prestatore, ma il datore ha diritto di prelazione per uso e acquisto.
Il potere disciplinare ed i suoi limiti
L’inadempimento alla responsabilità contrattuale del lavoratore (la disobbedienza, l’infedeltà o la non diligenza) può essere punito, in proporzione alla gravità dell’infrazione e in conformità dei contratti collettivi, mediante le seguenti sanzioni disciplinari:
- rimprovero (verbale o scritto)
- multa
- sospensione (dal lavoro o dalla retribuzione)
- il licenziamento (la massima sanzione)
Lo Statuto dei lavoratori, perseguendo l’obiettivo di tutelare la libertà e la dignità del lavoratore, ha introdotto dei limiti all’esercizio di tali poteri e, in particolare, ai controlli sull’attività lavorativa, area ignorata dal Codice Civile. L’art. 7 subordina l’esercizio dei poteri disciplinari alla pubblicazione del regolamento (c.d. codice) disciplinare. La procedura di contestazione, inoltre, deve essere tale da consentire al lavoratore un’effettiva difesa, anche a mezzo di rappresentanti sindacali. Altri limiti sostanziali sono stati introdotti per ridurre l’immediatezza tra infrazione e sanzione, incidendo sulla funzione intimidatoria del potere disciplinare (es.: max 10 giorni per la sospensione, max 4 ore di retribuzione per la multa, facoltà di impugnazione etc.). Ultimo limite è la recidiva: il lavoratore non può essere considerato recidivo (quindi subire maggiori sanzioni) a distanza di più di 2 anni dall’inadempimento commesso.
I controlli finalizzati alla salvaguardia del patrimonio aziendale
Lo Statuto consente l’impiego di guardie giurate soltanto per salvaguardare il patrimonio aziendale. Il legislatore intende impedire la formazione di una polizia privata alle dipendenze del datore. Alla tutela del patrimonio aziendale sono finalizzate anche le visite personali di controllo. L’art. 6 ha previsto, in caso di mancato accordo, l’intervento autorizzatorio della Direzione provinciale del lavoro, con provvedimento impugnabile davanti al Ministro del lavoro entro 30 giorni.
I controlli sull’attività lavorativa
Lo Statuto dispone che la vigilanza sull’attività sia preventivamente comunicata ai lavoratori interessati. Restano esclusi i collaboratori dell’imprenditore (dirigenti) che, per loro natura, svolgono attività di controllo. I controlli a distanza (impianti audiovisivi) sono vietati, salvo patto contrario stabilito con le rappresentanze sindacali, e salvo giustificati da motivazioni di sicurezza del lavoro. È previsto anche qui (nelle stesse modalità sopra indicate) l’intervento autorizzatorio (art. 6). Per quanto riguarda le nuove tecnologie (i comunicati attraverso un terminale, ad esempio, permettono il controllo), la legge non è applicabile, perché, quando emanata, tali tecnologie non esistevano.
Gli accertamenti sanitari
L’art. 5 dello Statuto regola, anzitutto, i controlli sull’assenza del lavoratore: è oggi vietato il controllo dello stato di malattia, mediante visita medica presso il domicilio del lavoratore, su ordine del datore di lavoro. Il datore dovrà, infatti, fare richiesta di controllo presso gli organismi pubblici (anche per quanto riguarda l’idoneità fisica), giacché essi sono obbligati a versare l’erogazione d’indennità. È, quindi, vietato l’apporto del medico fiduciario. La giurisprudenza ha chiarito che il divieto non è da applicarsi anche alle visite di preassunzione. Il D.Lgs ’94 n° 626 ha previsto l’obbligo di nominare, invece, un medico (che potrà, persino, essere un subordinato del datore) per la sorveglianza delle attività a rischio e per i controlli sull’idoneità del lavoratore ad una specifica mansione.
La procedimentalizzazione dei poteri di lavoro
Per effetto dello Statuto, che cerca di equilibrare le esigenze produttive con la dignità del lavoratore, la subordinazione risulta modificata rispetto al Codice Civile: vista l’inscindibilità di connessione tra persona e lavoro, lo Statuto vuole impedire che la subordinazione diventi personale, introducendo la procedimentalizzazione del potere imprenditoriale. Essa prevede dei vincoli che ampliano i concetti di correttezza e buona fede come limiti dei poteri imprenditoriali. L’art. 15 prevede la nullità dei patti diretti a discriminare il lavoratore per il proprio pensiero (qualsiasi esso sia). La libertà di espressione, tuttavia, non si potrà svolgere in contrasto con il diritto del datore di ricevere la prestazione.
Le mansioni e la qualifica
La prestazione di lavoro consiste in un facere. Per individuarla concretamente si fa riferimento alle mansioni. Esse costituiscono i compiti che possono essere pretesi dal datore, vale a dire che sono il criterio di determinazione qualitativa della prestazione, identificate:
- dal punto di vista dell’organizzazione: con la posizione di lavoro (job)
- dal punti di vista dell’obbligazione: con l’oggetto della prestazione
Va segnalata, infine, la divisione del lavoro in relazioni funzionali: i processi ed i contenuti delle mansioni, grazie alle innovazioni informatiche e tecnologiche, si stanno differenziando dai precedenti modelli fordisti e tayloristi, e ciò non è privo di rilievo ai fini della determinazione della retribuzione stessa, come vedremo nel prossimo paragrafo.
La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni
La differenziazione delle mansioni implica diversi livelli di abilità e, di conseguenza, di salario. La valutazione delle mansioni, nella generalità dei casi, è affidata alla contrattazione collettiva, la quale opera una classificazione su una scala (c.d. ventaglio) per far corrispondere ad ogni livello un trattamento economico e normativo adeguato.
L’inquadramento del prestatore di lavoro
Il secondo comma dell’art. 96 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile stabilisce che “l’imprenditore deve fare conoscere al lavoratore, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica…”. È evidente che un’analoga comunicazione si dovrà fare nelle ipotesi di mutamento di mansioni. L’assegnazione delle mansioni è, dunque, il presupposto per il c.d. inquadramento individuale del prestatore di lavoro.
- Per qualifica si intende l’attività che egli svolge o l’insieme di mansioni che ne individuano la figura professionale (la distinzione tra operai qualificati e non, non significa che i secondi siano privi di qualifica, ma soltanto che non abbiano certe conoscenze tecniche).
- Per categorie si intendono:
- Le categorie legali, individuate dall’art. 2095 c.c., che prevedono una distinzione dei lavoratori in:
- Dirigenti
- Quadri
- Impiegati
- Operai
- Le categorie contrattuali, individuate in passato dai contratti collettivi, che distinguevano:
- Impiegati
- Operai all’interno di queste 2 categorie distinguevano, per contratti, altre articolazioni.
- Le categorie legali, individuate dall’art. 2095 c.c., che prevedono una distinzione dei lavoratori in:
Con l’inquadramento unico (che vedremo) le sottoarticolazioni sono state sostituite dai livelli di inquadramento.
Le categorie legali
Come visto, esse sono contemplate direttamente dal legislatore: il 2095 c.c., al secondo comma, prevede che le leggi speciali e le norme corporative ne determino i requisiti di appartenenza. Tali requisiti sono fissati dalla legge sull’impiego privato (R.D.L. del 1924 n° 1825), ma in via sussidiaria della contrattazione collettiva, che può costruire e definire proprie categorie. Considerata la prevalenza della contrattazione collettiva, si può affermare che le categorie siano, quasi sempre, di tipo contrattuale e non più legale.
La distinzione tra operai ed impiegati
Essa è prevista dall’art. 2095 c.c. L’art. 1 del R.D.L. del 1924 n° 1825 definisce l’impiegato come “colui che svolge al servizio dell’azienda attività professionale con funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, eccettuata ogni prestazione che sia semplicemente di manodopera”. Ad oggi, nella pratica, questa distinzione è assai difficile. La dottrina era giunta ad affermare che:
- l’operaio collabora nell’impresa (attività)
- l’impiegato collabora all’impresa (organizzazione)
Ma anche questa definizione è ormai superata (ad esempio: il fattorino è considerato impiegato). La contrattazione collettiva ha fondato l’unificazione normativa sull’inquadramento unico. Esso si fonda su una pluralità di livelli, comuni sia all’impiegato sia all’operaio: si divide in categorie, ma per livelli retributivi (7 o 8). L’appartenenza ai livelli è determinata da definizioni declaratorie, ovvero definizioni basate sulla capacità professionale, che comportano una nuova scala di categorie contrattuali.
I dirigenti
In un primo tempo, essi vennero considerati impiegati con funzioni direttive. La loro distinzione è diventata notevole quando si è giunti ad organizzazioni sindacali separate. I dirigenti:
- hanno un regime previdenziale particolare,
- possono essere assunti liberamente con contratto a termine per una durata non superiore a cinque anni,
- non godono della tutela contro i licenziamenti,
- ma godono di un trattamento notevolmente privilegiato.
Nota: la contrattazione collettiva qualifica come dirigenti i lavoratori che “ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale” e rimanda l’attribuzione della qualifica dirigenziale al riconoscimento (c.d. nomina) da parte dell’imprenditore. La giurisprudenza dà rilievo, come sempre, all’effettivo svolgimento dell’attività, lasciando intendere che le caratteristiche fondamentali del rapporto dirigenziale siano:
- il contratto immediato
- ed il vincolo fiduciario
Nella realtà esistono dirigenti privi di poteri direttivi o lavoratori che, provvisti di forza contrattuale, riescono ad ottenere la qualifica di dirigente. Una definizione astratta, quindi, è priva di fondamento (in passato si parlava anche di alter ego dell’imprenditore) e, nella pratica, si suole rimandare ai concetti di top manager.
I quadri intermedi
Il loro riconoscimento giuridico è dato dall’art. 1 della legge n° 190 del 1985. Questa legge è stata voluta dai sindacati della categoria per contrastare l’appiattimento dei salari. Essa estende ai quadri le norme applicabili agli impiegati. I quadri, però, hanno funzioni in comune con i dirigenti; al 2° comma, infatti, la norma definisce quadri i lavoratori che “svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”. Nell’ipotesi in cui sia assente la contrattazione collettiva, è, comunque, sempre possibile rifarsi al principi dell’adeguatezza e della proporzionalità sanciti dall’art. 36 della Costituzione.
Mutamento di mansioni e dequalificazione
A differenza dei normali contratti (modificati per mutuo consenso), quelli di lavoro prevedono modifiche unilaterali del datore. Il c.d. “ius variandi” sancito dall’art. 2103 c.c., sostiene che ciò possa avvenire senza mutamento sostanziale della posizione e senza diminuire la retribuzione. L’art. 2103 è stato novellato (ampliato) dall’art. 13 dello Statuto, fortemente innovativo. La prima parte dell’art. 2103 stabilisce che “il prestatore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione di retribuzione” inoltre “nel caso di assegnazione a mansioni superiori ha diritto al trattamento corrispondente e l’assegnazione diviene definitiva, salvo che abbia sostituito un lavoratore con diritto alla conservazione del posto”. Dal testo vigente emerge la possibilità di un’adibizione a mansioni diverse da quelle originarie (mobilità). È di regola esclusa la mobilità verso il basso, salvo i seguenti casi:
- esigenze straordinarie sopravvenute (in buona fede)
- le lavoratrici madri devono essere adibite a mansioni non pregiudicanti la loro salute
- per riduzione di personale, qualora un accordo sindacale lo preveda
- per sopravvenuta inabilità del prestatore (malattia o infortunio).
La mobilità orizzontale
Essa consiste nell’assegnare mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, e non basta che le retribuzioni siano uguali per affermare quest’equivalenza. L’affinità di mansioni si ravvisa nella conservazione della posizione professionale acquisita.
La mobilità verso l’alto
Il già citato art. 2103 permette l’assegnazione a mansioni superiori stabilendo che il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente. Una deroga è stata introdotta dall’art. 6 della legge n° 190 del 1985, in base al quale la qualifica superiore matura dopo un periodo di almeno tre mesi di svolgimento delle mansioni superiori (oppure quello fissato dai contratti collettivi). L’art. 2103 stabilisce, con riferimento al mutamento di mansioni ed al trasferimento, che ogni patto contrario è nullo, escludendo la validità anche dei patti collettivi (inderogabilità). La nullità comporta l’inefficacia di ogni modifica in peius. Nel caso di dequalificazione la giurisprudenza riconosce il diritto di risarcimento sia patrimoniale sia non (secondo la tutela della dignità sociale e professionale). Ricordiamo che l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori ha introdotto il diritto alla promozione.
Il trasferimento del lavoratore
In mancanza di eventuali patti, la determinazione del luogo appartiene al datore. Il trasferimento è definitivo, ed in ciò si differenzia dalla trasferta; può essere disposto soltanto per comprovate ragioni tecniche o organizzative che l’imprenditore ha l’onere di provare. (art. 2067) e di comunicare. Vi è la necessità del nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza qualora il trasferimento riguardi i dirigenti delle r.s.a. Per i funzionari pubblici è richiesto il loro consenso espresso.
Ambiente di lavoro e durata della prestazione
La materia delle c.d. condizioni di lavoro intende disciplinare norme idonee a fissare concretamente le condizioni di igiene e sicurezza e a determinare la durata della prestazione (orario). Il coordinamento di fattori naturali ed artificiali, i macchinari e le materie di lavorazione costituiscono l’ambiente di lavoro. Al riguardo dell’integrità fisica, si è introdotto e sviluppato un sistema di assicurazioni sociali contro gli infortuni e le malattie professionali, in virtù del quale i lavoratori addetti alle lavorazioni pericolose hanno diritto di essere assicurati, indipendentemente dalla colpa dell’imprenditore o dello stesso lavoratore (cioè anche per il caso fortuito). Il principio del rischio professionale si sostituisce a quello precedente della colpa dell’imprenditore: tenuto a risarcire il lavoratore è l’ente assicuratore.
Il danno biologico (art. 9 Statuto)
L’art. 2087 stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’imprenditore è vincolato a svolgere un’attività generale di prevenzione dei rischi derivanti dall’ambiente di lavoro. Si tratta di un facere che limita il potere direttivo. Negli altri contratti un simile dovere scaturisce dal principio della buona fede (art. 1375). La salute è riconosciuta dall’art. 32 della Costituzione come bene d’interesse pubblico e assoluto.
L’art. 2087 è stato invocato, di solito, ex post, in funzione risarcitoria del danno biologico, la cui tutela va oltre la mera capacità lavorativa, riferendosi alle relazioni intellettuali e sociali. L’intervento del legislatore ha comportato l’estensione dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i casi di danno biologico derivanti da infortunio o da malattia professionale, casi coperti dall’assicurazione obbligatoria. L’art. 9 dello Statuto ha attribuito ai lavoratori il diritto di controllo sull’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie. Tale controllo deve essere collettivo, anche attraverso la promozione di nuove misure.
La tutela della salute nel “famoso” decreto “626” del ‘94
In attuazione della direttiva quadro CEE dell’89, questo decreto comprende sia il settore privato sia quello pubblico. Esso ribadisce il nesso, stabilito dall’art. 2087, tra obblighi di sicurezza e acquisizioni tecnologiche, inoltre prevede la valutazione e la riduzione al minimo dei rischi e altre disposizioni, tra le quali l’obbligo di informazione dei rappresentanti dei lavoratori sulle questioni di sicurezza. La 626 rafforza proprio questo diritto d’informazione, sancito anche dall’art. 9 dello Statuto, rendendo obbligatoria l’elezione di uno o più rappresentanti per la sicurezza. Riassumendo, le maggiori innovazioni della 626 sono:
- la valutazione dei rischi
- il piano di sicurezza ambientale
- l’istituzione di un servizio di prevenzione e protezione
- il rafforzamento degli obblighi di informazione
- la responsabilizzazione dei prestatori di lavoro
Orario di lavoro e determinazione della prestazione
La dimensione temporale innanzitutto funge da criterio di determinazione quantitativa e retributiva della prestazione lavorativa, in virtù del programma contrattuale (c.d. orario normale). La determinazione della retribuzione è di competenza dell’autonomia privata, collettiva o individuale, nei casi che vedremo. L’orario di lavoro funge da limite massimo di esigibilità della prestazione, fissato dalla legge dagli art. 2107 in poi e dall’art. 36 Cost.
L’evoluzione storica dell’orario di lavoro
Le norme del Codice Civile (2107 e 2108) rinviano alla contrattazione collettiva. Per le aziende industriali e commerciali vige ancora in parte il R.D.L. n° 692 del ’23, in base al quale la durata massima normale del lavoro effettivo (esclusi: attesa e custodia e lavori discontinui) non poteva essere superiore a 8 ore giornaliere o 48 settimanali. L’art. 5 del R.D.L. del ’23 (confermato dall’art. 2108 del Codice del ’42) intendeva il lavoro straordinario come prolungamento dell’orario normale, stabilendo che potesse essere svolto solo previo accordo tra le parti e non potesse superare le 2 ore giornaliere e le 12 settimanali, con una maggiorazione della retribuzione del 10%. L’art. 4, invece, prevedeva che nei lavori agricoli e in quelli con necessità tecniche potessero essere superati i limiti. Il R.D.L. escludeva totalmente dai limiti le categorie oggi definite “quadri” e “dirigenti”.
Gli sviluppi recenti
L’art. 13 della legge 196 del ’97 ha previsto una diminuzione degli orari di lavoro a 40 ore (se si lavora 8 ore al giorno, in poche parole significa che sabato e domenica sono liberi). Prevede inoltre che l’orario normale sia misurato in base alla durata media annuale (orari contrattuali multiperiodali): ad esempio, se la settimana scorsa ho lavorato ¼ in meno la prossima lavorerò ¼ in più, rispettando comunque la media, senza considerare, quindi, superato alcun limite. L’art. 5 bis della legge 692, introdotto nel ’98, stabilisce che “per le imprese industriali il lavoro straordinario deve essere contenuto”: 250 ore annuali e 80 trimestrali, salvo patto collettivo contrario. Il lavoro straordinario è consentito esclusivamente:
- in caso di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiare nuove assunzioni
- nei casi di forza maggiore o quando la cessazione del lavoro costituisca pericolo
- nelle ipotesi di mostre o fiere
Per i primi due casi è previsto l’avviso entro 24 alle rappresentanze sindacali. Infine, il D.Lgs. del ’99 impone che l’introduzione del lavoro notturno sia preceduta da una consultazione sindacale: la contrattazione collettiva avrà il compito di disciplinarne gli aspetti rilevanti, nel rispetto psico-fisico degli addetti.
I periodi di riposo
L’art. 2107 richiama indirettamente le pause, in una dimensione anche sociale e culturale. Il diritto al riposo settimanale è sancito dall’art. 2109 c.c. e garantito dall’art. 36 Cost. Il riposo annuale è sancito anche da una legge ratificata dall’Italia dopo una specifica dell’OIL. Il riposo feriale deve essere retribuito. All’imprenditore spetta il diritto di fissare il tempo di fruizione delle ferie e l’onere del preavviso. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2109, ma solo per la parte che non prevede che la malattia nel periodo feriale ne sospenda il decorso.
L’autonomia collettiva è normalmente chiamata a determinare la durata del periodo feriale, diversificato per anzianità e categoria. Infine, in materia di orario, riposo e ferie, è di recente intervenuta la direttiva del ’93. Nel Novembre ’97 Confindustria, CGIL, CISL e UIL hanno sottoscritto i “criteri di recezione della direttiva”. Tale documento ha lo scopo di indirizzare il futuro intervento legislativo Governo, chiamato a recepire la direttiva.