L’obbligo di forma e le sue conseguenze
La forma scritta per il licenziamento era già prevista dalla legge 604, ed è stata così riformulata dall’art. 2 della legge 108: “Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro.
Il prestatore di lavoro può chiedere, entro quindici giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso: in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto. Il licenziamento intimato senza (forma scritta) l’osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 è inefficace. Le disposizioni di cui al comma 1 e di cui all’articolo 9 si applicano anche ai dirigenti.”.
La giurisprudenza sostiene, quindi, che “Il licenziamento è un atto recettizio che produce i suoi effetti soltanto una volta comunicato al destinatario”. Il problema si pone quando il destinatario non accetta di ricevere tale comunicazione. Non esiste nessun principio per il quale il lavoratore sia obbligato all’accettazione. L’impugnazione è, infatti, prevista dall’art. 6 della legge 108 (già citato). Passiamo ai motivi del licenziamento. Il lavoratore ha la facoltà, volendo, di richiederli. Ma quali sono le conseguenze di una carenza di forma scritta? Il legislatore, all’art. 2 della legge 604, qualifica il licenziamento privo di forma scritta come inefficace, che è ben diverso da nullo (come sappiamo da diritto privato).
- L’orientamento maggioritario della dottrina e della giurisprudenza è, tuttavia, quello di tradurre ed assimilare il termine “inefficace” al termine “nullo”.
Che conseguenze ci sono allora? Se il licenziamento orale non produce effetti, in via di principio non può venire a mancare né la retribuzione, né la prestazione. Il comportamento di fatto, quindi, è distinto dalla situazione di diritto: mentre il licenziamento è come non esistesse, il rapporto è, nei fatti, cessato. Si applicano allora i regimi sanzionatori previsti dal diritto comune: si tende ad escludere il diritto alla retribuzione e si tende invece a ricondurre il regime sanzionatorio al risarcimento del danno.
- Esiste anche un orientamento minoritario che riconduce l’inefficacia ad un licenziamento ingiustificato.
Perché è così importante questo modo di interpretare l’art. 2 della legge 604? Perché gli effetti sono distinti. Gli argomenti contrari a questa seconda tesi sono:
- Non avendo la comunicazione dei motivi non si può sapere se essi siano giustificati o meno.
- Bisogna conoscere i motivi per ricorrere in giudizio, impugnando il licenziamento, e garantendo una difesa al lavoratore licenziato, visto che è su di lui che grava l’onere della prova (come detto).
- Come si può pensare che la comunicazione di un atto così importante non consenta alcuna prova?
- Il problema tende ad incrociarsi con il problema per le dimissioni orali.
- È vero che si sanziona rigorosamente la mancanza del vizio formale, tuttavia esso può essere facilmente sanato: se sussiste una giustificazione, basta scrivere una lettera il giorno dopo, e ciò non è troppo oneroso.
E nel caso in cui vi siano vizi formali, ma si abbia un licenziamento disciplinare cosa succede? Il punto d’approdo della giurisprudenza, in questo caso, riflette l’orientamento minoritario: quel licenziamento sarà da assimilare ad un licenziamento ingiustificato.
Ricordiamo che non esiste alcuna disposizione indicata dal legislatore sul licenziamento disciplinare: esso è nato dalle interpretazioni ad opera della stessa giurisprudenza. Per ragionare di licenziamento disciplinare, occorre una breve digressione: quali sono gli obblighi che gravano sul prestatore di lavoro? Com’è configurato il potere disciplinare nel nostro ordinamento? Le principale obbligazioni del lavoratore (vedi capitolo 4 del Ghera) trovano loro fonte negli artt. 2104 e 2105 c.c. Cito il 2104, riguardo alla “Diligenza del prestatore di lavoro”: “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.”. La diligenza dovrà ancora una volta essere correlata alla posizione gerarchica occupata dal lavoratore nonché alle sue mansioni ed alle sue responsabilità.
Se il prestatore deve obbedire agli ordini (ricordiamo il principio della eterodirezione), l’insubordinazione è, appunto, la non obbedienza volontaria e sistematica, da parte del lavoratore, agli ordini del datore. Cito il 2105, riguardo all’“obbligo di fedeltà”: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.”. In realtà l’obbligo di fedeltà si trasforma in due divieti:
- Divieto di concorrenza
- Divieto di divulgazione
Questi divieti vengono meno alla cessazione del rapporto di lavoro, espressamente ribaditi dal “patto di non concorrenza”, previsto dall’art. 2125 c.c.: “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura su indicata.”. Il potere disciplinare del datore di lavoro è regolato dall’art. 2106: “L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione.”.
Questa è la norma chiave in materia di sanzioni disciplinari. Vi è proporzionalità fra infrazione e sanzione. Questo è un principio al quale si conformano tutte le altre leggi in merito, come per l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Analizziamo il caso delle molestie sessuali. La tutela contro di esse era riconducibile, innanzitutto, all’obbligo di sicurezza che grava sul datore (integrità psichica e morale): il datore di lavoro, venuto a conoscenza di un comportamento molesto da parte di un suo subordinato senza averlo sanzionato, è anch’egli responsabile.
Da cosa deriva il potere disciplinare del datore? Solitamente si riconduce (secondo le varie interpretazioni) a:
- il contratto
- la subordinazione (l’eterodirezione)
Se il potere disciplinare è tipico del datore, con l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, vengono introdotte delle limitazioni all’esercizio di questo potere (si potrebbe quasi sostenere che l’intero Statuto è orientato a questa limitazione). Quali sono i punti fondamentali di quest’articolo?
- Il primo obbligo consiste nel rendere pubbliche le norme disciplinari, relativamente alle infrazioni ed alle eventuali sanzioni che potrebbero essere applicate (il codice disciplinare ha funzione costitutiva).
- Troviamo anche un rinvio ai contratti collettivi, dai quali il datore non può discostarsi.
- È obbligatoria la tempestività delle sanzioni.
- Sono previste le procedure del potere disciplinare. La contestazione è la prima di queste procedure, e deve essere specifica ed immutabile, sempre perché il lavoratore deve potersi difendere e generare le prove.
- Il 5° comma prevede che “i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possano essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.”.
- Quali tipi di sanzioni possono essere irrogate? I limiti sono previsti dal comma 4°: “la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.”.
- Il punto più delicato riguarda il tipo delle sanzioni: possono essere previste sanzioni atipiche?
Il problema si è posto per un provvedimento che condivide qualche aspetto con il licenziamento, almeno secondo la giurisprudenza: ci riferiamo al trasferimento per motivi disciplinari. In realtà non esiste una disciplina al riguardo: stiamo parlando di un atto che può essere adottato dal datore di lavoro, che trova dei limiti all’interno dello stesso Statuto.
L’art. 2103 c.c. prevede questo limite: “il lavoratore può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra solo a fronte di comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’azienda.” e sul datore grava l’onere di provare tali esigenze. L’art. 7 dello Statuto prevede, inoltre, che “non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”. Mixando questi due articoli parliamo di “incompatibilità ambientale” di un lavoratore rispetto al suo contesto lavorativo: a seguito di un’infrazione disciplinare si può ipotizzare un trasferimento giustificato. Pensiamo, ad esempio, ad una rissa o una molestia sul posto di lavoro.
Negli ultimi anni la giurisprudenza ha capovolto le interpretazioni precedenti al riguardo, specificando che “il trasferimento non costituisce un mutamento definitivo del rapporto di lavoro”, dunque esso è legittimo. Se anche trasferito, tuttavia, il lavoratore dovrà (secondo l’art. 2103) essere riadibito a mansioni assimilabili alle antecedenti. Inizialmente si ebbe una soluzione formalista: se il licenziamento è di tipo disciplinare, si applica l’art. 7 solo se compare nel novero delle sanzioni previste dal codice disciplinare. La tappa successiva è stata l’intervento della Corte Costituzionale, che ha previsto i casi in cui dichiarare “l’illegittimità costituzionale dei primi 3 commi dell’art. 7”.
Si avvalla, dunque, la nozione ontologica del licenziamento disciplinare. Allora quando il licenziamento è ontologicamente disciplinare? “Ogni volta che sia motivato da un comportamento imputabile alla colpa del lavoratore”. A chi si applica l’art. 7 = Chi sono i suoi destinatari? La Corte, con una sentenza dell’89, ne ha esteso l’applicabilità a qualsiasi subordinato, in particolare, anche ai datori con meno di 15 dipendenti. Nel caso di licenziamenti con vizi formali, quindi senza rispetto dell’art. 7, essi sono considerati illegittimi dalla Corte Cost.
Ma che cosa avviene sul piano delle sanzioni? Nella migliore delle ipotesi si potrebbe pensare ad un licenziamento viziato, illegittimo e nullo, ma anche in tal caso la mattina dopo il datore di lavoro potrebbe rifare un recesso ad nutum. La Carta dei diritti fondamentali, all’art. 30 prevede la tutela in caso di licenziamento ingiustificato. Sappiamo che essa non ha valore, tuttavia ha un suo peso nell’orientamento verso la giustificazione necessaria per qualunque licenziamento.
Torniamo alla differenza tra tutela reale ed obbligatoria. Abbiamo visto come con la legge 108 del ’90 si sia generalizzato l’obbligo di giustificazione del licenziamento. Alla vigilia della legge 108, la Corte riconduceva la disciplina limitativa dei licenziamenti (sebbene presenti in linea di massima agli artt. 4 “diritto al lavoro” e 35 Cost.) all’intervento del legislatore. La Corte, nella sentenza dell’86, ha affermato che l’art. 4 non garantisce a tutti il diritto di avere un lavoro: la disciplina deve soltanto rispettare le esigenze di un trattamento eguale per situazioni uguali e modificato solo per specifiche situazioni.
Nel 2000, la Corte Cost. ha dichiarato ammissibile il referendum abrogativo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La Corte aveva giustificato questa dichiarazione col seguente argomento: “l’art. 18 non ha un contenuto costituzionalmente vincolato, ossia la sua eliminazione non determinerebbe la soppressione di una tutela fondamentale. La norma di cui all’art. 18, per quanto espressiva di esigenze ricollegabili agli artt. 4 e 35 Cost. è da escludere che concreti il solo paradigma attuativo di quei principi”: non è l’unico modo per garantire il diritto al lavoro.
L’eventuale abrogazione della tutela reale avrebbe il solo effetto di escludere uno dei modi per realizzare la disciplina della garanzia del lavoro.”. La Corte, nel 2003 ha nuovamente dovuto decidere sull’ammissibilità di un altro referendum, che questa volta era volto ad estendere la tutela reale dell’art. 18. In entrambi i casi, non è stato raggiunto il quorum. Riprendiamo una fonte che avevamo già incontrato: “il libro bianco sul mercato del lavoro”. In quel testo, che non è un testo normativo, ma ha costituito la base della legge delega c.d. Biagi, prevedeva anche una revisione della disciplina dei licenziamenti.
Per la valutazione su “come tradurre quegli intendimenti in quella che poi divenne la legge 30 (Biagi)”, vi era stato un forte disaccordo tra le grandi confederazioni sindacali: tutti i sindacati, tranne la CGIL, hanno firmato il “patto per l’Italia”, che, però, non conteneva la modifica o la sospensione temporanea dell’art. 18. Il compromesso fu raggiunto nel seguente modo: col patto per l’Italia, il Governo stralciò dal disegno di legge Biagi la parte sui licenziamenti e la riforma degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione), infatti non si trova nella legge 30. È confluita in un disegno di legge (848 bis) separato e tutt’ora all’esame del Parlamento. Il ministro del lavoro Maroni ne ha annunciato una rapida approvazione.
Vediamo cosa prevede il testo che attualmente il Governo ha presentato al senato. Gli obiettivi dichiarati sono “i fini di sostegno e incentivazione del lavoro regolare e delle assunzioni a tempo indeterminato, per introdurre in via sperimentale disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie a carico del datore in caso di licenziamento ingiustificato, in deroga all’art. 18, prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione”. L’art. 3 prevede una serie di principi direttivi, articolati in 3 lettere, con contenuti ben diversi tra loro:
- “Conferma dei divieti attualmente vigenti (2210 c.c.)”. Non è chiaro se resterà la reintegrazione, resta a parte la vicenda dei licenziamenti discriminatori e quelli assimilabili in senso lato (maternità etc.)
- Applicazione in via sperimentale della disciplina dall’entrata in vigore dei decreti legislativi, fatte salve eventuali proroghe”. L’abolizione dell’art. 18 viene vista come una tutela dell’occupazione.
- Identificazione delle ragioni oggettive connesse a:
- Riemersione dal lavoro nero e regolarizzazione
- Stabilizzazione dei rapporti di lavoro (trasformazioni dei contratti a termine in contratti determinati)
- Incoraggiamento politico e della crescita dimensionale delle imprese minori. Anche qui sembra che vi sia una relazione tra non crescita e art. 18.
La giustificazione della deroga dell’art. 18 sta in questi 3 motivi e nel bisogno di non computo dei nuovi lavoratori assunti, per 2 anni, ai fini del raggiungimento della soglia dei 15 dipendenti. La ratio è la seguente: pare che una ragione della non crescita siano i controlli che un datore di lavoro subisce (ovviamente l’abolizione dell’art. 18 è un principio del Governo di destra), anche in presenza dei sindacati, e mediante la tutela reale.
Le organizzazioni di tendenza
Guardando complessivamente all’attuale campo di applicazione della tutela reale, un’area concerne le c.d. organizzazioni di tendenza. Allora completiamo l’analisi dell’art. 4 della legge 108, ed in particolare della seconda parte del 1° comma, che dichiara che la disciplina di tutela reale dell’art. 18 dello Statuto “non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori (2082 e 2195 c.c.) che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.”.
La necessità di comprendere chi è o non è un imprenditore riemerge. L’onere della prova spetta al datore di lavoro. Vediamo i requisiti da provare, previsti dall’art. 2082 c.c.:
- La professionalità
- L’organizzazione
- La natura economica
- La creazione di ricchezza.
La Cassazione dà una nozione ampia di creazione di ricchezza, includendo anche “chi oggettivamente produce ricchezza, anche se non ha scopo di lucro personale, anche se i proventi sono destinati a terzi”. Un’altra precisazione sull’art. 4 della 108, sull’area di non applicazione dell’art. 18: essa “non opera ai sensi dei licenziamenti nulli o privi di giusta causa o di giustificato motivo” (ai sensi della legge 604).
Questo sempre secondo la Cassazione. Nota bene: In pratica, poiché il licenziamento orale non esiste giuridicamente, dunque non produce alcun effetto. Torniamo a “Il divieto di licenziamento discriminatorio”. La disposizione di riferimento è l’art. 3 della legge 108, che riunifica effetti e conseguenze: “Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie […] è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto), come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti.”.
La prima interpretazione evolutiva della disciplina, considera le mutazioni delle disposizioni, indicate tra parentesi (“[…]”): si sono aggiunti, come già detto, handicap, età e orientamenti sessuali. In forza di altre disposizioni di legge, un esempio classico è quello del divieto di licenziamento della lavoratrice madre, fino ad un anno dalla nascita del bambino: è un licenziamento nullo, e “recepisce” una sentenza della Corte Cost. Oggi la legge lo esprime chiaramente, così come sostiene la nullità di altri licenziamenti assimilabili: quelli causati dalla domanda di congedo parentale, congedo di paternità etc. Finora ha prevalso la tendenza a considerare che questa nullità sia “di diritto comune”: quel licenziamento non sarà assistito dalla reintegrazione.
Ma l’art. 18 è molto più protettivo rispetto alla nullità di diritto comune! (prevede risarcimento e reintegrazione, anziché una mera nullità). Esiste un modo di interpretare l’art. 3 per espandere la tutela reale a questi casi altri casi di licenziamento discriminatorio? Il modo c’è, in particolare per il licenziamento della lavoratrice madre.
Da molti anni la Corte di Giustizia ha affermato che “qualunque trattamento connesso allo stato di maternità non può essere qualificato che un atteggiamento di discriminazione per ragioni di sesso” (visto che soltanto le donne possono avere figli). Questo principio non è ancora stato efficace, ma si può auspicare un’applicazione della direttiva 78 del 2000 per il superamento di questo evidente gap.
Vediamo il licenziamento discriminatorio nelle organizzazioni di tendenza.
Si ha un palese contrasto tra l’art. 3 e l’art. 4 della legge 108, ma l’art. 4 prevede questo inciso: “fermo restando quanto previsto dall’art. 3”. Ma è da intendersi solo per i lavoratori domestici o per tutto l’art. 4? Non si sa. Il problema è stato affrontato diversamente dalla giurisprudenza: ha cercato una soluzione intermedia. I casi classici che si sono posti hanno riguardato insegnanti di scuole religiose. In una sentenza del ’94, la Cassazione segnò un punto di svolta, anche se non tutti l’hanno seguito.
La Corte doveva ragionare sul caso di un insegnante d’educazione fisica, in un istituto religioso, che aveva contratto matrimonio civile, ma non religioso (altro caso riguardava il divorzio, notoriamente in contrasto con i principi cattolici). Secondo la Corte “l’art. 4 serve a regolare gli effetti di un normale licenziamento illegittimo, ma nulla dice sul licenziamento ideologico, nel quale non trova applicazione”. Il punto centrale della decisione è il seguente: “il licenziamento ideologico o è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e in tal caso al prestatore spetta la tutela reale, oppure è legittimo quando l’adesione ideologica è un requisito di autenticità della prestazione”.
Così come per l’art. 2104 c.c., l’interesse e le finalità del datore di lavoro, assumono rilievo nel momento in cui si debba valutare se il prestatore abbia adempiuto diligentemente o meno alla sua prestazione. “I principi ideologici possono essere rilevanti, in materia di tutela reale, soltanto se in contrasto con altri principi fondamentali” (sindacali, politici e religiosi), altrimenti “il docente che accetta di lavorare in questi tipi di istituzioni, lo fa per proprio consenso, e tale consenso implica anche l’accettazione delle regole insite in quell’istituto”. Si distingue, dunque, tra mansioni neutre e mansioni di tendenza: la giurisprudenza ha sostenuto che “il licenziamento è illegittimo perché l’insegnamento dell’educazione fisica non è connotato ideologicamente” (ne avevamo già parlato), quindi è stata applicata la tutela reale.