Classificazione d’impresa in base alle dimensioni dell’attività
Le dimensioni dell’impresa sono il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori. L’articolo 2083 identifica la piccola impresa; essa gode di ausilio e sostegno. Art. 2083 Piccoli imprenditori. “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.” Rientrano nella categoria coloro che esercitano l’attività di impresa prevalentemente col lavoro proprio e dei propri famigliari. L’articolo fa alcuni esempi di categorie che potrebbero soddisfare la condizione essenziale/il criterio generale di prevalenza: i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti. La prevalenza deve verificarsi nei confronti di tutti i fattori produttivi (non solo il lavoro altrui, ma anche sui capitali investiti). Per aver una piccola impresa è necessario che:
a) L’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa
b) Il suo lavoro e quello dei suoi familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale. Non è per ciò mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell’impresa senza avvalersi di nessun collaboratore.
La prevalenza è intesa in senso quantitativo – funzionale: occorre accertare se l’apporto personale dell’imprenditore e dei suoi familiari abbiano rilievo preminente nell’organizzazione dell’impresa e caratterizzano i beni o i servizi prodotti. Il piccolo imprenditore è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili, dall’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare
Il codice civile afferma che il piccolo imprenditore è esonerato dal fallimento. Tutta via la legge fallimentare fornisce una legge di piccolo imprenditore diversa, e conciliare queste definizioni è stato un problema fino alla riforma del 2007. Prima l’articolo 1 definiva come piccolo imprenditore dettando tre requisiti: era piccolo imprenditore chi aveva un reddito minore al limite imponibile per l’imposta di ricchezza mobile (poi abrogata) o chi avesse investito un capitale inferiore a 900.000 lire (questo requisito non era attuabile perché mai adeguato). Per lungo tempo poi non sono state considerate piccoli imprenditori ai fini fallimentari le società. Con la riforma del 2006 vengono reintrodotti limiti quantitativi: per essere piccoli imprenditori occorreva:
- attivo medio nei 3 anni precedenti minori di 400.000 €
- ricavi medi nei 3 anni precedenti minori di 200.000 €
- indebitamento minore di 500.000 €
Il problema restava siccome le due definizioni si basavano su elementi diversi: i problemi sono stati parzialmente risolti togliendo dalla legge fallimentare il riferimento ai piccoli imprenditori; si danno solo parametri dimensionali. Dunque non è soggetto a fallimento, secondo la nuova norma del 2007 chi non supera nessuno di questi 3 limiti indicati:
a) Chi dimostra di aver avuto nei tre anni precedenti al deposito di un istanza di fallimento un attivo patrimoniale sotto i 300.000 €
b) Aver realizzato nei tre anni precedenti al deposito di un istanza di fallimento ricavi lordi non superiori a 200.000 €
c) Aver un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500.000 €
Anche le società commerciali possono essere esonerate da fallimento se rispettano questi limiti dimensionali.
L’impresa artigiana
Non troviamo nel codice nessuna definizione specifica di artigiano, dobbiamo ricercarla nella legge quadro sull’artigianato .La legge del 1956 definiva le imprese artigiane a tutti gli effetti di legge, in qualsiasi circostanza, civilistica, fallimentare, eccetera. Con la successiva legge dell’85 non propone quell’inciso, quindi la definizione è valida ai soli fini della legge quadro. Quindi la qualifica di artigiano non è da sola sufficiente a sottrarre l’artigiano alla disciplina dell’imprenditore commerciale, a meno che non rispetti il requisito della prevalenza. È artigiano colui che svolge una qualsiasi attività di beni e servizi (salvo limitazioni) svolgendo prevalentemente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo (prevalenza nel ciclo produttivo, non sugli altri fattori produttivi). Essa è quindi contraddistinta da:
- Il ruolo preponderante dell’artigiano, che deve prestare in misura prevalente il proprio lavoro anche manuale nel processo produttivo (articolo 2, comma 1); deve comunque essere in possesso di tutti i requisiti tecnico-professionali previsti dalle leggi speciali;
- L’oggetto dell’impresa, che oggi può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati o di prestazioni di servizi; sono escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande.
Molto probabilmente l’impresa artigiana integra la caratteristica essenziale del 2083 codice civile ma non c’è equivalenza automatica perché non è detto che il lavoro sia un fattore prevalente sugli altri. La legge del 1985 considera artigiane anche le imprese costituite in società cooperativa o in nome collettivo a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale.
Titolare di un’impresa artigiana può essere anche una società, purché sia organizzata in forma di società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società a responsabilità limitata, sia unipersonale che pluripersonale, o società cooperativa, con esclusione pertanto delle sole società per azioni e società in accomandita per azioni. L’impresa artigiana non può oltrepassare i limiti dimensionali fissati dall’articolo 4 della legge quadro e deve iscriversi in un apposito albo previsto dal successivo articolo 5 al fine di godere delle provvidenze ed agevolazioni previste dalla disciplina di dettaglio.
L’impresa familiare
L’istituto dell’impresa famigliare è volto non tanto all’individuazione di una specifica categoria quanto a disciplinare alcuni rapporti familiari. È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo dell’imprenditore. È frequente che un’impresa familiare rispetti anche i requisiti della piccola impresa ma non c’è coincidenza tra le due fattispecie. È un istituto nato nel 1975 per tutelare i familiari dallo sfruttamento da parte dell’imprenditore del lavoro dei familiari, senza costringere il capofamiglia a formare una società o ad assumere e familiari come dipendenti. È una forma di impresa che ha origine dalla situazione di fatto (il fatto che i familiari prestano lavoro nell’impresa). I familiari beneficiano di diritti patrimoniali e amministrativi:
- partecipazione agli utili proporzionalmente al lavoro prestato (qualitativamente e quantitativamente)
- diritto mantenimento
- diritti sui beni acquistati con gli utili
- in caso di cessione dell’attività hanno, a parità di condizioni, una prelazione rispetto ai terzi
- possono partecipare ad alcune decisioni amministrative di straordinaria amministrazione
L’impresa familiare resta pur sempre un impresa individuale. Solo il titolare è autorizzato alla gestione e si occupa delle decisioni di ordinaria amministrazione. Solo il titolare risponde delle obbligazioni dell’impresa ed è soggetto a fallimento (se l’impresa famigliare non rientra nei parametri sopra indicati parlando di fallimento).