Licenziamento discriminatorio
Nozione
La legge n° 108 del 1990 ha ribadito nell’articolo 3 la nullità del licenziamento discriminatorio già sancita dall’articolo 4 della legge 604 del ’66. Si configura oggi una fattispecie unitaria di licenziamento discriminatorio, caratterizzato dalla sussistenza di un motivo politico, sindacale, religioso, razziale, di lingua o di sesso.
Sembrano però esclusi dal campo di applicazione i licenziamenti diversi da quelli richiamati; allora è intervenuto il legislatore mediante un allargamento di questi casi, con la modifica apportata all’articolo 15 dello Statuto dall’articolo 4 1° comma del D.Lgs. numero 216/2003, di attuazione delle direttive CE del 2000 numero 43 e 78: si potrà ritenere applicabile l’art. 3 ai licenziamenti intimati in ragione dell’handicap, dell’età, dell’orientamento sessuale o delle convinzioni personali.
La Cassazione esclude ancor oggi la forza espansiva dell’articolo 3 ai seguenti casi: lavoratrice madre, licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale, malattia del bambino; conseguentemente esclude la reintegrazione per questi casi.
I licenziamenti di ritorsione sono quelli fondati su motivi sindacali, in cui rientra qualunque iniziativa a sostegno degli interessi di tutti i lavoratori. Spetta al lavoratore provare la sussistenza del motivo discriminatorio.
La Cassazione configura il licenziamento discriminatorio solo quando il motivo discriminatorio risulti l’unico motivo.
L’articolo 4 della legge 125 del 1991 ha alleggerito l’onere probatorio fino alla parziale inversione dell’onere per le discriminazioni di genere. I decreti 215 e 216 consentono la prova anche sulla base di dati statistici.
Regime sanzionatorio
Già prima della legge 108 del 1990 la giurisprudenza ammetteva la nullità del licenziamento discriminatorio anche nei confronti dei dirigenti. Questo perché se un atto è nullo è sempre applicabile nei confronti di tutti, quindi per il licenziamento discriminatorio si applica sempre e comunque la tutela reale prevista dall’articolo 18 Statuto (reintegrazione).
Il licenziamento intimato ad un dirigente a seguito di profonde divergenze in merito ai rapporti da mantenere con i sindacati non può qualificarsi come licenziamento di rappresaglia, trattandosi di una questione di fiducia con l’imprenditore.
Licenziamento discriminatorio nelle organizzazioni di tendenza
Qui la neutralità delle mansioni svolte dal lavoratore non sempre è sufficiente a garantirgli la tutela reale.
C’è un contrasto tra l’articolo 3 ed il 4 della legge 108 del ’90, che disegna un’area di non applicazione della tutela reale a favore delle organizzazioni di tendenza. La giurisprudenza appare divisa in merito.
Un’importante tappa è stata una pronuncia sulla legittimità del licenziamento, da parte di una scuola cattolica, di un insegnante di educazione fisica che aveva contratto matrimonio civile e non religioso (si vedano anche gli appunti).
Il licenziamento ideologico è nullo, per cui in tal caso al lavoratore spetta la tutela reale.
La libertà di opinione è solennemente garantita dalla Costituzione. Le eccezioni a tali norme possono essere ammissibili solo nei limiti in cui garantiscano altri diritti costituzionali, quali la libertà religiosa, della scuola, dei partiti e dei sindacati.
La Corte ha affermato il potere di recedere dal rapporto nel caso in cui gli indirizzi del docente fossero contrastanti con l’istituzione scolastica: il docente, d’altronde, insegna per un atto di libero consenso, che implica l’adesione ai principi della istituzione.
L’educazione fisica prescinde completamente dall’orientamento ideologico del docente. Tanto meno vale obiettare il contatto (peraltro ridotto per un insegnante di educazione fisica) con gli allievi, salvo che non risulti che il docente avesse diffuso idee in contrasto con l’indirizzo cattolico.